martedì 31 luglio 2012

Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo

 Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo
 Tratto da "la Repubblica", 30 agosto 2003

 Umberto Galimberti

«Se io ti do il mio amore, che cosa ti sto dando di preciso? Chi è l' io che sta facendo questa offerta? E chi, per inciso, sei tu?» si domanda lo psicanalista americano Stephen Mitchell nel suo ultimo libro: L' amore può durare?. La domanda non è retorica. Segna piuttosto un ribaltamento radicale circa il modo di considerare l' amore, quasi sempre pensato come qualcosa in possesso dell' io, qualcosa di cui l' io può disporre. Per questo nessuno crede fino in fondo all' altro quando dice: «Io ti amo». Amore non è una faccenda dell' io. L' ultimo a ricordarcelo, in ordine di tempo, è stato Freud quando ha detto che «l' io non è padrone in casa propria», perché inconsce sono le forze che determinano quelle che l' io considera sue scelte. Prima di Freud queste cose le aveva dette Nietzsche, da cui Freud, su suggerimento del suo amico Georg Groddeck, preleva il termine Es. Non "io penso", ma "esso pensa". Che se l' io non è padrone dei suoi pensieri come può essere padrone dei suoi amori? Ma prima di Freud e prima di Nietzsche queste cose le aveva pensate Schopenhauer che Nietzsche considera suo "educatore" e Freud suo "precursore". Per Schopenhauer in ciascuno di noi confliggono due vite: quella della specie e quella dell' individuo, che proprio nelle vicende d' amore trovano la loro contaminazione. «Il soggetto del gran sogno della vita - scrive Schopenhauer - è in un certo senso uno soltanto: la volontà di vivere». Questa volontà, che è irrazionale perché non tende ad altro scopo se non alla propria perpetuazione, inganna i singoli individui con le lusinghe d' amore. Questi credono di essere i soggetti della loro vicenda erotica, in realtà sono solo strumenti che la specie utilizza per la propria conservazione. Non siamo noi i soggetti della nostra esperienza erotica, ma forze oscure e impersonali con cui la specie raggiunge i suoi scopi. Ma prima di Freud, prima di Nietzsche, prima di Schopenhauer, queste cose le aveva dette Platone che, nel Simposio, ci dà forse la lettura più profonda che in Occidente sia mai stata fatta sulle cose d' amore. Scrive Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l' uno dall' altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. è allora evidente che l' anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Guardando «le cose d' amore» o, come dice il testo greco i ta aphrodisia, Platone ci chiede che cosa con esse l' anima riesce o non riesce a dire. E dove il dire si interrompe e la regola non basta a portare la parola a espressione si apre lo sfondo buio del presagio e dell' enigma. Amore appartiene all' enigma e l' enigma alla follia. Nell' edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l' abisso della follia, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, perciò nel Fedro può dire: «I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino». E ancora: «La follia dal Dio proveniente è assai più bella della saggezza d' origine umana». Ma chi sono gli dèi? Sono gli abitanti di quel mondo che sta prima dell' umana ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare in una produzione compiuta di senso. Di questo mondo ha conoscenza Socrate, che non considera la ragione da lui inaugurata nella sola prospettiva dell' ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l' ha evocata, da quale abisso l' ha chiamata fuori. Un giorno una donna ha insegnato a lui, che non sa niente, quell' unica cosa che sa: la scienza delle cose d' amore. «Vi assicuro che di nulla ho sapere, se non delle cose d' amore. Amore è un demone possente che sta tra gli uomini e gli dèi». Dunque non una vicenda tra uomini, ma tra l' umano e quello sfondo pre-umano abitato indifferentemente dagli animali e dagli dèi. Proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l' io razionale «patisce» e perciò legge come «altro da sé». Gli dèi infatti sono dentro di noi e la loro follia ci abita. Per questo l' amore di cui parla Socrate non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione (katokoché) di un dio. L' entusiasmo che genera, lungi dall' essere un sentimento di esuberanza o di particolare eccitazione, dice che l' uomo, in quella circostanza è abitato da un dio, ha dentro di sé un dio (en-theos), per cui non è l' io razionale a proferir parola, ma il dio che lo possiede. Quanto basta per farci capire che, in presenza di amore, l' io razionale subisce una dislocazione (atopia, dice Socrate in riferimento alla sua malattia) che dis-loca la nostra riflessione, e ci obbliga a pensare a partire da amore, e non dall' io che inaugura una storia d' amore. Amore, infatti, non è qualcosa di cui l' io dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell' io, qualcosa che lo incrina, che lo apre alla crisi, che lo toglie dal centro della sua egoità, dall' ordine delle sue connessioni per nessi di tutt' altro genere e forma e qualità. Per questo Socrate, a proposito delle cose d' amore, parla di possessione, di katokoché. Figlio di povertà (penia), «Amore - riferisce Socrate - non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l' aperto cielo, nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiaramente la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà». Ma Amore è anche figlio di Poros, la via, il passaggio, il guado. E perciò concede alla follia che ci abita il suo transito. Questa, irrompendo nell' ordine dei significati che l' io razionale ha costruito per espellerla, produce quel controsenso che denuncia la maschera eretta sull' elusione della follia. E qui la direzione del discorso si lascia intuire: Amore non è godimento di corpi, Amore è molto di più. Occupando «il posto intermedio tra l' uno e l' altro estremo», Amore si fa interprete (ermeneuei) tra la ragione che l' uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita. Non quindi un rapporto tra uomini come si è soliti credere, ma tra la parte razionale dell' uomo e la sua parte folle o divina. Ma che ne è dell' io e dell' altra parte di sé quando Amore li accoglie? Che ne è dell' uomo e del dio quando Amore li interpreta? Se Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l' altro, quanto una relazione con l' altra parte di noi stessi, quindi un cedimento dell' io per liberare in parte la follia che lo abita, Amore ha a che fare con quei limiti ontologici che sono per l' esistenza la nascita e la morte. Morte dell' io per dissoluzione dei suoi confini, sua rinascita in nuove configurazioni. Questa oscillazione, che ogni atto d' amore porta con sé, ha bisogno della presenza dell' altro come memoria della realtà che si lascia e come possibilità di ritorno dal mondo estraneo a cui ci si è concessi nella dissolvenza dell' io. L' avvinghiarsi al corpo dell' altro, prima di un contatto, è dunque una presa. Per il solo fatto di esserci accanto, l' altro ci concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al cedimento del nostro io, con la sua presenza, come la levatrice durante il parto, l' altro aiuta la nostra nascita. C' è infatti in Amore un' intenzione generativa, dice Socrate: «Porta fuori quel fondo nascosto di cui ciascuno è gravido ponendo fine alle doglie». Ma questo avviene dopo l' esperienza della morte (di cui l' orgasmo è la simulazione) che ci strappa dalla nostra ostinazione a veder durare quell' io che noi siamo. Se ci portiamo all' origine possiamo ricostruire le parole e le scene, rivedere il contrasto tra uomini e dèi, le ferite inferte e le cure concesse. «L' antica nostra natura non era la medesima di oggi» riferisce Platone. In principio gli uomini erano l' uno e l' altro (amphoteroi), la loro forma era circolare, il loro aspetto intero e rotondo, «non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra». Un giorno «Zeus, volendo castigare l' uomo senza distruggerlo lo tagliò in due». Da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo», la metà che cerca l' altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l' «antica ferita», Zeus, dopo averla inflitta, inviò Amore «fra gli dèi l' amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all' antica condizione. Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l' umana natura». Da allora gli uomini si congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la terra, ma per unione reciproca. Mediatore tra gli uomini e gli dèi, Amore interviene al limite dell' umano, laddove il fondo non-storico, da cui la nostra storia ha preso avvio, ancora ci possiede come follia rimossa. Chi tocca questa follia ci affascina e ci induce a quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione di quella follia di cui si contorna Amore, dove il senso gioca col non-senso e dove non si dà nuova parola se non liberando a ogni istante l' antica follia. Così Platone erge Amore a simbolo della condizione dell' uomo «a cui però non è concesso distogliere l' occhio dal proprio taglio». E questa è la ragione per cui Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.

sabato 28 luglio 2012

Umberto Galimberti: I divoratori di psicofarmaci

Umberto Galimberti: I divoratori di psicofarmaci
Tratto da “la Repubblica”, 3 marzo 2003

Se il 53 per cento degli italiani soffre di disagio psichico per lo più a sfondo depressivo (34 per cento), se il 32 per cento assume psicofarmaci il cui consumo è aumentato del 60 per cento negli ultimi quattro anni, allora vuol dire che la società italiana sta molto male, al di là della rappresentazione gaia e felice che di essa ne fanno la pubblicità e la nostra spensierata televisione nei suoi programmi di intrattenimento.
Ma qual è l´origine del male? Già Freud nell´ultimo anno della sua vita scriveva che: "Per il primitivo è facile essere sano, mentre per l´uomo civilizzato è un compito difficile", ma attribuiva la difficoltà all´eccesso di regole che governano le società civili, e quindi iscriveva la depressione nel novero delle nevrosi, dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di colpevolezza. Oggi, per effetto dell´americanizzazione della nostra cultura, le norme limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è sfumato nel possibile e nel consentito.
Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si presenta più come un "conflitto", e quindi come una "nevrosi", ma come un fallimento nella capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell´impossibile. E quando l´orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più: "Ho il diritto di compiere questa azione?", ma "sono in grado di compiere questa azione?".
Quel che è saltato nella nostra attuale società per l´influsso della cultura americana è il concetto di "limite". E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti questi che entrano in collisione con l´immagine che la società richiede a ciascuno di noi. Di qui l´ingente richiesta dei nuovi farmaci antidepressivi (quelli venuti dopo gli antidepressivi triciclici) che hanno assunto come orizzonte terapeutico elettivo quello di sopprimere l´insonnia e l´ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l´inibizione all´azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che la società odierna considera essenziali per definire la dignità e la significanza esistenziale di ciascuno di noi.
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la dipendenza psicofarmacologica, dove le promesse di onnipotenza assomigliano non a caso a quelle che popolarizzano la droga. Il farmacodipendente e il tossicodipendente sono infatti due versanti di quel tipo umano che infrange la barriera tra il "tutto è possibile" e il "tutto è permesso". Essi radicalizzano la figura dell´individuo sovrano, e pagano il conto con la schiavitù della dipendenza, che è il prezzo della libertà illimitata che l´individuo si assegna.
Ma i nuovi antidepressivi sono in un certo senso più insidiosi delle droghe, perché le molecole messe oggi sul mercato delle industrie farmaceutiche contro la depressione alimentano l´immaginario di poter maneggiare illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe o gli effetti secondari dei vecchi antidepressivi. In questo modo lo psicofarmaco, sopprimendo i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati dalla nostra cultura influenzata dal modello americano, accelera la corsa, rendendoci perfettamente omogenei alle richieste sociali.
Ma a questo punto il rimedio farmacologico al blocco della depressione è peggiore del male, perché, mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società a cui fanno più comodo - e non è scoperta di oggi - robot de-emozionalizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di vivere.

giovedì 26 luglio 2012

Alicia Martín: L'installazione con i libri

Alicia Martín: L'installazione con i libri


La passione per la lettura non colpisce tutti, si sa, ma quando fa breccia questo amore è eterno e immortale.
Con i libri ci si può fare di tutto, oltre a leggerli ed amarli (l'uso più comune), si possono collezionare, prestare, e regalare ad una persona cara con tanto di dedica nella prima o nell'ultima pagina. Certo, si può fare davvero di tutto con un libro, ad esempio anche una mega "cascata" di carta, che dalla facciata di un'abitazione comune scende e si rovescia nella strade e nel "via vai" cittadino. Sembra pazzesco lo so, un uso insolito e grottesco penserete, particolare per un oggetto come il libro, più che una pazzia è una vera e propria vocazione, questa, una sorta di comunicazione non verbale da parte dell'artista Alicia Martín.

 
                                L'artista Alicia Martín all'interno di una sua installazione

L'artista spagnola Alicia Martín, classe 1964, possiede una passione talmente smodata per i libri (quelli cartacei) e per la lettura, tanto da creare con essi delle sculture imponenti. L'artista madrilena crea installazioni usando libri, migliaia di libri, che applicandoli intorno ad una armatura o scheletro danno vita ad una magistrale "cascata cartacea", che partendo da una finestra o dalla facciata di un palazzo, si riversa in strada in tutta la sua "abbondanza culturale", catturando inevitabilmente l'attenzione di passanti e curiosi. Le location scelte da parte dell'artista spagnola sono le più variegate: parchi, palazzi d'epoca, palazzi comuni e marciapiedi. Il numero dei libri cambia a seconda delle installazione, per quella di Cordoba, ad esempio, che potete ammirare nell'immagine sottostante, sono stati utilizzati 5000 volumi.

                                “Biographies” (Cordoba) 2010 by Alicia Martin

Un effetto ottico che riempie decisamente gli occhi a chi si trova casualmente nei paragi, un effetto reso ancora più straordinario con l'aiuto del vendo, che rende il tutto vivo e dinamico, conferendo alla scultura e nello specifico ai libri, leggiadria a grazia.





In questo video potete ammirare 
la scultura "viva" di Alicia Martín



martedì 24 luglio 2012

Umberto Galimberti: Il tradimento perfetto

Umberto Galimberti: Il tradimento perfetto 
Tratto da "D - La Repubblica delle Donne", 22 maggio 2004


Umberto Galimberti


Se il tradimento non è solo un esercizio di sessualità a bassa definizione, io penso che abbia una sua dignità e soprattutto che non debba essere giudicato da figli adulti che, nel condannarlo, pensano di più alla loro quiete perduta che al percorso anche drammatico in cui chiunque di noi, a un certo punto della sua vita, può venirsi a trovare. Tradire un amore, tradire un amico, tradire un'idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa infatti svincolarsi da un'appartenenza e creare uno spazio di identità non protetta da alcun rapporto fiduciario, e quindi in un certo senso più autentica e vera. Nasciamo infatti nella fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma possiamo crescere e diventare noi stessi solo se usciamo da questa fiducia, se non ne restiamo prigionieri, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire: "Non sono come tu mi vuoi". C'è infatti in ogni amore, da quello dei genitori, dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti a quello delle idee e delle cause che abbiamo sposato, una forma di possesso che arresta la nostra crescita e costringe la nostra identità a costituirsi solo all'interno di quel recinto che è la fedeltà che non dobbiamo tradire. Ma in ogni fedeltà che non conosce il tradimento e neppure ne ipotizza la possibilità c'è troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole nostre forze, troppa incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d'ombra. Eppure senza questo profilo d'ombra, quella che puerilmente chiamano "fedeltà" è l'incapacità di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le regioni sconosciute della vita che si offrono solo a quanti sanno dire per davvero "addio". E in ogni addio c'è lo stigma del tradimento e insieme dell'emancipazione. C'è il lato oscuro della fedeltà che però è anche ciò che le conferisce il suo significato e che la rende possibile. Fedeltà e tradimento devono infatti l'una all'altro la densità del loro essere che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito, risvegliando l'un l'altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativa impropriamente scambiata per "amore". Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e barare al gioco della vita. Il traditore di solito queste cose le sa, meno il tradito che, quando non si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella negazione o nella scelta paranoide, finisce per consegnarsi a quel tradimento di sé che è la svalutazione di se stesso per non essere più amato dall'altro, senza così accorgersi che allora, nel tempo della fedeltà, la sua identità era solo un dono dell'altro. Tradendolo l'altro lo consegna a se stesso, e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare se stessi, come un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino. Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato se stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in un'area protetta dove il camuffamento dei nomi fa chiamare fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere mai davvero nati. 

venerdì 20 luglio 2012

Classifica dei libri più venduti in Italia dal 9 al 15 luglio

CLASSIFICA GENERALE

1  Cinquanta sfumature di grigio - E.L. James (Mondadori)
2  Cinquanta sfumature di nero - E.L. James (Mondadori)
3  Cinquanta sfumature di rosso - E.L. James (Mondadori)
4  Una lama di luce - Andrea Camilleri (Sellerio)
5  Fai bei sogni - Massimo Gramellini (Longanesi)
6  Lo spettro - Jo Nesbo (Einaudi)
7  Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi - Alessandro Piperno (Mondadori)
8  I love Tiffany - Marjorie Hart (Newton Compton)
9  Io sono il Libanese - Giancarlo De Cataldo (Einaudi)
10 Se ti abbraccio non avere paura - Fulvio Ervas (Marcos y Marcos)






CLASSIFICA NARRATIVA ITALIANA

 1  Una lama di luce - Andrea Camilleri (Sellerio)
 2  Fai bei sogni - Massimo Gramellini (Longanesi)
 3  Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi - Alessandro Piperno (Mondadori)
 4  Io sono il Libanese - Giancarlo De Cataldo (Einaudi)
 5  Se ti abbraccio non avere paura - Fulvio Ervas (Marcos y Marcos)
 6  Il momento è delicato - Niccolò Ammaniti (Einaudi)
 7  La casa dei sette ponti - Mauro Corona (Feltrinelli)
 8  Leonié - Sveva Casati Modignani (Sperling & Kupfer)
 9  Il silenzio dell'onda - Gianrico Carofiglio (Rizzoli)
10 L'incontro - Michela Murgia (Einaudi)




                                                                                                                              

CLASSIFICA NARRATIVA STRANIERA 

1  Cinquanta sfumature di grigio - E.L. James (Mondadori)
2  Cinquanta sfumature di nero - E.L. James (Mondadori)
3  Cinquanta sfumature di rosso - E.L. James (Mondadori)
4  Lo spettro - Jo Nesbo (Einaudi)
5  I love Tiffany - Marjorie Hart (Newton Compton)
6  Rapture - Lauren Kate (Rizzoli)
7  L'ultimo giorno - Glenn Cooper (Nord)
8  Innamorarsi a New York - Melissa Hill (Newton Compton)
9  I complici - Georges Simenon (Adelphi)
10 La luce sugli oceani - M.L. Stedman (Garzanti) 





mercoledì 18 luglio 2012

Né con te, né senza di te di Umberto Galimberti

Né con te, né senza di te

 di Umberto Galimberti



Nel Disagio della civiltà Freud scrive:

"Umanità ha sempre barattato un po' di felicità per un po’ di sicurezza"

Qual è Il senso? Mi aiuti a capire, se possibile. Qual è Il senso della coppia? Che cosa significa Innamorarsi? Esiste l'amore, oppure è un nume che si attribuisce a una serie di stati d'animo e di proiezioni? Solitudine, passione, Incomprensione, Indifferenza, sessualità, erotismo ... ? E li matrimonio? Esistono dei matrimoni riusciti, cioè nel rispetto di se stessi e dei proprio coniuge? Reali In ogni Istante e non nel ricordo di una condivisione passata o di una idealizzazione dei presente o, ancor peggio, allenati dalla routine e assopiti dalle responsabilità sociali (lavoro, figli, ruoli coniugali ... )? Guardandomi Intorno, osservando le relazioni sentimentali di amici e conoscenti, e sulla base di esperienze personali, mi sembra di poter constatare che una relazione è più o meno duratura nella misura In cui ci si alterna a 'rincorrerei uno o l'altro membro della coppia. Fino a quando uno dei due sfugge e 'tradisce' l'altro, dedicandosi a proprie passioni e progetti, la coppia ha una speranza di vita. La relazione vive nell'alternanza di tradimento e ritorno all'altro. Ma se al ritorno si è irriconoscibili? Come disse Nietzsche "i diversi mari e zone di sole ci hanno mutati'. E allora: la promessa di fedeltà eterna su cui si basa Il matrimonio cristiano, che valore ha se l'uomo, per essere degno a se stesso, deve navigare mari lontani e sempre diversi? La mia razionalità mi dice che ogni esperienza mi rende diversa e la mia diversità spesso richiede compagni di viaggio differenti, ma il mio cuore è costantemente straziato dal lutti di cui devo soffrire. è possibile conciliarli? E soprattutto è possibile godere pienamente di un amore pur sapendo che nel momento In cui nasce si avvia Inesorabilmente alla sua morte? Dov'è l'errore di fondo nelle relazioni che Instauriamo se per farle vivere pienamente abbiamo bisogno di considerarle interminabili? Mi scuso per la quantità dì domando che le rivolgo ma la lotta tra ragione e sentimento è così lacerante che mi rendo debole e confusa. Se può Indirizzare su questi quesiti una luce di verità, che gli attribuisca un significato, mi aiuterebbe a trovare un senso laddove Il senso, mi pare dì constatare, non esiste.

Emanuela - Genova


                                                                   Umberto Galimberti


Il problema che lei solleva non è, come potrebbe sembrare, un problema da adolescenti, ma un problema molto serio: si tratta niente di meno che della dialettica lo/Noi, perché ogni volta che siamo in relazione con l'altro, mettiamo in atto anche il nostro desiderio di non annullarci nell'altro. Vogliamo essere con l'altro, ma nello stesso tempo, per salvare la nostra individualità, vogliamo non esserci completamente. Di qui quell'esserci e non-esserci, quel rincorrersi e tradire, che fa parte della relazione amorosa. Perché l'amore è una relazione, non una fusione. Se infatti non esistessimo come individualità autonome, non solo non potremmo incontrare l'altro e metterci in relazione, ma non avremmo neppure nulla da raccontare all'altro fuso simbioticamente con noi. Quando lei o lui iniziano un viaggio fuori dal "NOI" e che prescinde dal "NOI" solo per i precetti religiosi, tradiscono, in realtà salvano la loro individualità dall’abbraccio mortale del "Noi" che non emancipa, non consente né arricchimenti, e neppure parole da scambiare che non siano già dette o già sapute prima che siano pronunciate. Tutto questo per dire che l'amore non è possesso, perché il possesso non tende al "bene dell’altro" né alla lealtà verso l'altro, ma solo al mantenimento della relazione che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di sé, la sacrifica in cambio di sicurezza. Siamo in due, non sappiamo più chi siamo, ma siamo insieme ad affrontare il mondo. Due esistenze negate, ma tutelate. Amore è cosa difficile, perché sempre ci si confonde e non ci si chiarisce se si ama l'altro o si ama la relazione, sé sì soddisfa il nostro bisogno di sicurezza o il nostro bisogno di felicità. Oppure si vuole la felicità. ma non i suoi costi, e in alternativa si vuole la sicurezza, ma non la sua noia. Amore è un gioco di forze dove si decide a quale dio offrire la propria vita: al dio della felicità che sempre accompagna la realizzazione di sé, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla negazione di sé. Una cosa però è certa che nella relazione, nel "NOI" non ci si può seppellire come in una tomba, ogni tanto bisogna uscire se non altro per sapere chi siamo senza di lei o di lui Solo gli altri, infatti, ci raccontano le parti sconosciute di noi. Gli altri se li lasciamo parlare, senza soffocarli con il nostro bisogno di conferme che di solito, sbagliando, siamo soliti chiamare bisogno d’amore.