Umberto Galimberti: I divoratori di psicofarmaci
Tratto da “la Repubblica”, 3 marzo 2003
Se il 53 per cento degli italiani soffre di disagio psichico per lo più a sfondo depressivo (34 per cento), se il 32 per cento assume psicofarmaci il cui consumo è aumentato del 60 per cento negli ultimi quattro anni, allora vuol dire che la società italiana sta molto male, al di là della rappresentazione gaia e felice che di essa ne fanno la pubblicità e la nostra spensierata televisione nei suoi programmi di intrattenimento.
Ma qual è l´origine del male? Già Freud nell´ultimo anno della sua vita scriveva che: "Per il primitivo è facile essere sano, mentre per l´uomo civilizzato è un compito difficile", ma attribuiva la difficoltà all´eccesso di regole che governano le società civili, e quindi iscriveva la depressione nel novero delle nevrosi, dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di colpevolezza. Oggi, per effetto dell´americanizzazione della nostra cultura, le norme limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è sfumato nel possibile e nel consentito.
Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si presenta più come un "conflitto", e quindi come una "nevrosi", ma come un fallimento nella capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell´impossibile. E quando l´orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più: "Ho il diritto di compiere questa azione?", ma "sono in grado di compiere questa azione?".
Quel che è saltato nella nostra attuale società per l´influsso della cultura americana è il concetto di "limite". E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti questi che entrano in collisione con l´immagine che la società richiede a ciascuno di noi. Di qui l´ingente richiesta dei nuovi farmaci antidepressivi (quelli venuti dopo gli antidepressivi triciclici) che hanno assunto come orizzonte terapeutico elettivo quello di sopprimere l´insonnia e l´ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l´inibizione all´azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che la società odierna considera essenziali per definire la dignità e la significanza esistenziale di ciascuno di noi.
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la dipendenza psicofarmacologica, dove le promesse di onnipotenza assomigliano non a caso a quelle che popolarizzano la droga. Il farmacodipendente e il tossicodipendente sono infatti due versanti di quel tipo umano che infrange la barriera tra il "tutto è possibile" e il "tutto è permesso". Essi radicalizzano la figura dell´individuo sovrano, e pagano il conto con la schiavitù della dipendenza, che è il prezzo della libertà illimitata che l´individuo si assegna.
Ma i nuovi antidepressivi sono in un certo senso più insidiosi delle droghe, perché le molecole messe oggi sul mercato delle industrie farmaceutiche contro la depressione alimentano l´immaginario di poter maneggiare illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe o gli effetti secondari dei vecchi antidepressivi. In questo modo lo psicofarmaco, sopprimendo i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati dalla nostra cultura influenzata dal modello americano, accelera la corsa, rendendoci perfettamente omogenei alle richieste sociali.
Ma a questo punto il rimedio farmacologico al blocco della depressione è peggiore del male, perché, mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società a cui fanno più comodo - e non è scoperta di oggi - robot de-emozionalizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di vivere.
Ma qual è l´origine del male? Già Freud nell´ultimo anno della sua vita scriveva che: "Per il primitivo è facile essere sano, mentre per l´uomo civilizzato è un compito difficile", ma attribuiva la difficoltà all´eccesso di regole che governano le società civili, e quindi iscriveva la depressione nel novero delle nevrosi, dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di colpevolezza. Oggi, per effetto dell´americanizzazione della nostra cultura, le norme limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è sfumato nel possibile e nel consentito.
Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si presenta più come un "conflitto", e quindi come una "nevrosi", ma come un fallimento nella capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell´impossibile. E quando l´orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più: "Ho il diritto di compiere questa azione?", ma "sono in grado di compiere questa azione?".
Quel che è saltato nella nostra attuale società per l´influsso della cultura americana è il concetto di "limite". E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti questi che entrano in collisione con l´immagine che la società richiede a ciascuno di noi. Di qui l´ingente richiesta dei nuovi farmaci antidepressivi (quelli venuti dopo gli antidepressivi triciclici) che hanno assunto come orizzonte terapeutico elettivo quello di sopprimere l´insonnia e l´ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l´inibizione all´azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che la società odierna considera essenziali per definire la dignità e la significanza esistenziale di ciascuno di noi.
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la dipendenza psicofarmacologica, dove le promesse di onnipotenza assomigliano non a caso a quelle che popolarizzano la droga. Il farmacodipendente e il tossicodipendente sono infatti due versanti di quel tipo umano che infrange la barriera tra il "tutto è possibile" e il "tutto è permesso". Essi radicalizzano la figura dell´individuo sovrano, e pagano il conto con la schiavitù della dipendenza, che è il prezzo della libertà illimitata che l´individuo si assegna.
Ma i nuovi antidepressivi sono in un certo senso più insidiosi delle droghe, perché le molecole messe oggi sul mercato delle industrie farmaceutiche contro la depressione alimentano l´immaginario di poter maneggiare illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe o gli effetti secondari dei vecchi antidepressivi. In questo modo lo psicofarmaco, sopprimendo i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati dalla nostra cultura influenzata dal modello americano, accelera la corsa, rendendoci perfettamente omogenei alle richieste sociali.
Ma a questo punto il rimedio farmacologico al blocco della depressione è peggiore del male, perché, mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società a cui fanno più comodo - e non è scoperta di oggi - robot de-emozionalizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di vivere.
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