Umberto Galimberti: Il tradimento perfetto
Tratto da "D - La Repubblica delle Donne", 22 maggio 2004
Umberto Galimberti
Se il tradimento non è solo un esercizio di
sessualità a bassa definizione, io penso che abbia una sua dignità e
soprattutto che non debba essere giudicato da figli adulti che, nel
condannarlo, pensano di più alla loro quiete perduta che al percorso
anche drammatico in cui chiunque di noi, a un certo punto della sua
vita, può venirsi a trovare. Tradire un amore, tradire un amico, tradire
un'idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa
infatti svincolarsi da un'appartenenza e creare uno spazio di identità
non protetta da alcun rapporto fiduciario, e quindi in un certo senso
più autentica e vera. Nasciamo infatti nella fiducia che qualcuno ci
nutra e ci ami, ma possiamo crescere e diventare noi stessi solo se
usciamo da questa fiducia, se non ne restiamo prigionieri, se a coloro
che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono
venuti, un giorno sappiamo dire: "Non sono come tu mi vuoi". C'è infatti
in ogni amore, da quello dei genitori, dei mariti, delle mogli, degli
amici, degli amanti a quello delle idee e delle cause che abbiamo
sposato, una forma di possesso che arresta la nostra crescita e
costringe la nostra identità a costituirsi solo all'interno di quel
recinto che è la fedeltà che non dobbiamo tradire. Ma in ogni fedeltà
che non conosce il tradimento e neppure ne ipotizza la possibilità c'è
troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole
nostre forze, troppa incapacità di amare se appena si annuncia un
profilo d'ombra. Eppure senza questo profilo d'ombra, quella che
puerilmente chiamano "fedeltà" è l'incapacità di abbandonare lidi
protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le
regioni sconosciute della vita che si offrono solo a quanti sanno dire
per davvero "addio". E in ogni addio c'è lo stigma del tradimento e
insieme dell'emancipazione. C'è il lato oscuro della fedeltà che però è
anche ciò che le conferisce il suo significato e che la rende possibile.
Fedeltà e tradimento devono infatti l'una all'altro la densità del loro
essere che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito,
risvegliando l'un l'altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia
emancipativa impropriamente scambiata per "amore". Gioco di prestigio di
parole per confondere le carte e barare al gioco della vita. Il
traditore di solito queste cose le sa, meno il tradito che, quando non
si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella negazione o nella scelta
paranoide, finisce per consegnarsi a quel tradimento di sé che è la
svalutazione di se stesso per non essere più amato dall'altro, senza
così accorgersi che allora, nel tempo della fedeltà, la sua identità era
solo un dono dell'altro. Tradendolo l'altro lo consegna a se stesso, e
niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse
un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare se
stessi, come un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino.
Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del
tradimento che in quello della fedeltà, forse perché la vita preferisce
di più chi ha incontrato se stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha
evitato di farlo per stare rannicchiato in un'area protetta dove il
camuffamento dei nomi fa chiamare fedeltà e amore quello che in realtà è
insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il
terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, prima di morire, con
il rischio di non essere mai davvero nati.
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