lunedì 24 settembre 2012

I segreti d'Italia, di Corrado Augias: Leopardi a Roma

I segreti d'Italia, di Corrado Augias: 

Leopardi a Roma
  


La copertina del libro "I segreti d'Italia"
di Corrado Augias (2012)


In una bella giornata d'autunno, ho percorso le strade attraversate da Leopardi nel suo viaggio a Roma. Era autunno anche per lui, quello del 1822, aveva 24 anni ed era la prima volta che lasciava "l'odiato sepolcro" di Recanati. Il poeta cercava una liberazione che però a Roma non trovò. Per arrivare nella capitale (dello stato pontificio) impiegherà quasi una settimana a bordo di una carrozza degli Antici, parenti per parte materna. Risale l'Appennino percorrendo una strada tortuosa incassata nel fondo d'una valle che appare oggi come immutata da allora, con i fianchi coperti di boschi fitti, un antico romitorio. Attraversa la piana luminosa di Colfiorito, ridiscende verso Foligno ("Come chi d'Appennin varcato il dorso / presso Fuligno...", scriverà nei Paralipomeni della Batracomiomachia), visita le fonti del Clitumno. La piccola comitiva si ferma a dormire a Spoleto all'Albergo della Posta. Da lì scrive al padre Monaldo una lettera così sgangherata che qualche giorno dopo, arrivato finalmente a Roma, si sente in divere di chiarirla con un'altra lettera a suo fratello Carlo: "Fa leggere questa lettera al signor padre, al quale io non so quello che mi scrivessi a Spoleto: perché dovete sapere che io scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini, ecc.". Da questa corrispondenza apprendiamo tra l'altro che Giacomo, anche se poco più che ventenne, godeva di una certa fama come poeta e che giustamente se ne compiace. Di quella stessa rumorosa tavolata di Fabrianesi e Iesini faceva parte anche un prete in vena di scherzi grossolani. Nella lettera lo descriveva così: "Un birbante di prete furbissimo, che era con loro, si propose di dar la burla anche a me come la dava a tutti gli altri; ma credetemi che alla mia prima risposta cambiò tuono tutto d'un salto, e la sua compagnia divenne buonissima e gentilissima come tante pecore".
Lascia Spoleto, attraversa Terni, Narni, Otricoli, Civita Castellana, e infine Roma che s'annuncia dall'alto della strada col suo frastagliato profilo di campanili e di cupole tutte dominate dalla mole di San Pietro. Lo spettacolo lo colpisce; alla sorella Paolina scrive (3 dicembre): "la cupola l'ho veduta io, colla mia corta vista, a cinque miglia di distanza [...] e l'ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce come voi vedete di costà gli Appennini".



                                              
Monumento a Giacomo Leopardi di U. Panichi - Recanati piazza centrale


Ho fatto lo stesso itinerario ma a ritroso, cioè da Roma verso Recanati. Volevo vedere i profili dei monti, le gole, le irsute dorsali, le mura che egli vide, per esempio quelle "spaventose" di Spoleto, che oggi certo non spavento più nessuno come non spaventa l'immane rocca albornoziana che sovrasta la città. Strana storia quella della Rocca. Innocenzo VI la fece edificare come piazzaforte a difesa dei territori della Chiesa. Il suo legato cardinale Egidio Albornoz chiamò l'architetto Matteo di Giovanello detto il Gattapone e gli commissionò l'opera. Eravamo nel 1362 e per alcuni secoli la rocca fu protagonista nella storia di Spoleto.
La posizione dominante, gli agi di cui fu arricchita permisero di ospitarvi alcuni dei maggiori personaggi del tempo. Lucrezia Borgia, per fare un esempio, figlia di papa Alessandro VI, governatrice del territorio alla fine del Quattrocento. In seguito il governo pontificio destinò la rocca a carcere e tale rimase anche con il Regno d'Italia, fino al 1982. La storia italiana è così fitta di rimandi e d'incroci che si rischia continuamente di deviare per sentieri traversi. Dobbiamo tornare a Leopardi in viaggio verso Roma.
Ovviamente molte cose sono cambiate, soprattutto il numero e la densità delle case; qualche tratto di strada però credo, a parte l'asfalto, sia rimasto tale e quale, a guidicare dalla serie di curve e di saliscendi; e poi, frugando con lo sguardo, si ritrovano qua e là profili di monti, lembi ora di bosco ora di campagna che appaiono oggi proprio come dovette vederli lui, con i suoi occhi malandati e con la sua "corta vista".
L'intenzione del poeta era di stabilirsi nella capitale, e comunque di liberarsi dell'asfissiante tutela paterna. Per sfuggire a quella galera era disposto a tutto, perfino a farsi prete. Solo a parole, però. Perché quando il cardinale Consalvi segretario di Stato di Pio VII, sollecitato in suo favore, gli offre di "indossare l'abito di corte" ovvero una posizione a metà tra quella prelatizia e quella laicale, che gli avrebbe permesso una rapida carriera nella Chiesa, Giacomo rifiuta per uno scatto d'orgoglio o un più profondo moto di ripulsa e scrive che la sua vita "dev'essere più indipendente che sia possibile".
A Roma resiste più o meno sei mesi, ospite dei cugini Antici, che lo allogiano in una fredda stanzetta al piano ammezzato o forse nel sottotetto, comunque non al piano nobile. Il povero poeta si lamenta spesso nelle lettere dei geloni che lo tormentano e che, una volta aperti, diventano piccole piaghe dolorose lentissime a chiudersi.
Gli Antici erano una tipica famiglia papalina né povera né troppo ricca, allegra e sordida, disordinata e priva di interessi culturali. dai gusti tristemente opachi che Giacomo giudica: "momentanei, indefinibili, imprevedibili, inafferrabili". Il suo racconto delle conversazioni che si tenevano a tavola dà il quadro della loro angustia.
Le lettere ai fratelli Carlo e Paolina ci mettono sotto gli occhi una vasta dimora gelida, dalle pareti spoglie, vi s'immagina una servitù rivestita di livree lise, calzature malconce, avvezza in cucina a rubacchiare gli avanzi nei piatti per compensare il magro salario.
Le 945 lettere dell'epistolario, che sono il vero romanzo della sua vita, ci danno personaggi e bozzetti indimenticabili. Il 25 novembre scrive a Carlo: "Sono obbligato a far la vita di casa Antici; quella vita la quale noi due, ragionando insieme, non sapevamo qual fosse né in che consistesse né come potesse reggersi né se fosse vita in alcun modo".
Anche la vita a Recanati, nel bel palazzo avito, non doveva essere molto diversa, a parte la notevole erudizione del padre Monaldo fiero della biblioteca dove Giacomo consuma gran parte della giovinezza.
Proprio a "Casa Leopardi", Alfredo Panzini ha dedicato un bel saggio che contiene tra l'altro questo espressivo ritratto del conte Monaldo: "Uno dei gentiluomini più singolari dei suoi tempi, la Chiesa e la Spada cioè il trono e l'altare, ebbero pochi difensori più strenui e convinti di lui [...]. Né alto né basso era il signor Conte; né bello né brutto, rasato -- s'intende -- il volto e con la zazzera all'indietro. Vestì sempre di nero alla maniera dell'Ancien Régime, calzoni corti anche quando usavano lunghi, calze nere, scarpe basse e con fibbie d'argento, cravatta bianca [...] curioso è il vanto di aver portato la spada ogni giorno, come i cavalieri antichi [...]. Dall'alto palazzo comitale nella sua Recanati egli guardava il mondo. Era in continua corrispondenza coi più famosi reazionari, gesuiti, legittimisti del tempo".
Eppure, a modo suo, negli anni soffocanti della Restaurazione dopo gli sconvolgimenti napoleonici, Monaldo riesce ad essere un padre affettuoso, cero come poteva esserlo un uomo di tal genere, imperterrito clericale, nostalgico del passato, timoroso d'ogni possibile futuro. Amò suo figlio, ma non riuscì mai a capirlo. Giacomo, come spesso accade, ebbe nei suoi  confronti sentimenti tra odio e amore. Alla fine dovette prevalere l'amore se possiamo giudicarlo dalle intestazioni delle lettere. Le prime si rivolgono a lui con "Mio signor padre"; si passa poi ad un meno rigido "Carlo signor padre", nelle ultime, strazianti, lo chiama amorevolmente "Carissimo papà".
Molto più netti i sentimenti di Giacomo nei confronti di sua madre Adelaide Antici. Quando nel 1797 il conte Monaldo la prende in sposa, la marchesina Adelaide ha 19 anni. Gli darà dieci figli, cinque dei quali sopravvissuti, diventa presto una di quelle padrone di casa che girano con le chiavi che tintinnano attaccate alla cintura, attenta al livello del vino nelle bottiglie e al numero dei caci nella dispensa. Monaldo, che ogni anno, implacabile, la mette incinta, è ben presto ridotto al rango di "pupillo bene sorvegliato e privo di denaro". Atmosfera quasi lugubre quella di casa Leopardi. Paolina, la povera Paolina, non bella, oppressa dai genitori, destinata ad un malinconico zitellaggio, vede sua madre così: "Quello che posso vedere dalla mia finestra è sempre sorvegliato da mia madre (la quale) gira per tutta la casa, si trova per tutto, a tutte le ore".
Giacomo dà alla madre, nello Zibaldone, una descrizione terribile:

Non compiangeva quei genitori che perdevano i lori figli bambini ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati in paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente [...].
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo ed era stata così ridotta dalla sola religione.

Come apparve dunque la Roma di Pio VII agli occhi di Giacomo? In due parole direi: una città vasta e in ogni senso misera: culturalmente povera, con i salotti pieni di letterati talvolta brillanti ma spaventosamente disinformati e provinciali. Il 9 dicembre 1822 scrive al padre:

Letterati [...] io n'ho veramente conosciuti pochi, e questi pochi m'hanno tolto la voglia di conoscerne altri. [...] Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell'uomo, è l'Antiquaria. [...] La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino e il greco; senza [le] quali lingue, ella ben vedo che cosa mai possa essere lo studio dell'antichità.

Quando racconta al fratello Carlo dell'abate Francesco Cancellieri, erudito e storico, lo dipinge così: "Ieri fui da [Cancellieri], il quale è un coglione un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile".
Più dei vaniloqui di quel "coglione" di abate, impressiona l'acuta percezione che Giacomo ha della povertà culturale romana. Parla il filologo, e dei più avvertiti, quando fa notare che occuparsi di antichità classiche senza possedere le lingue della classicità significa negarsi in partenza ogni vera possibilità di conoscere.
In quello stesso dicembre scrive alla sorella Paolina:

La frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. [...] Questa mattina (per dirvene una sola) ho sentito discorrere gravemente e lungamente sopra la buona voce di un Prelato che cantò messa avanti ieri, e sopra la dignità del suo portamento nel fare questa funzione. [...] Il Prelato rispondeva che aveva imparato col lungo assistere alle cappelle che questo esercizio era stato molto utile, che quella è una scuola necessaria ai loro pari, che non s'era niente imbarazzato, e mille cose spiritosissime. Ho poi saputo che parecchi Cardinali e altri personaggi s'erano rallegrati con lui per il felice esito di quella messa cantata. Fate conto che tutti i propositi de' discorsi romani sono di questo gusto; e io non esagero nulla.

 Sulla Roma di quegli anni abbiamo molti racconti e di tono diverso. Stendhal, per esempio, che a Roma scese ben sei volte, scrive che: "Le persone di spirito, a Roma, possiedono del brio [...]. Non conosco, in Europa, salotti che siano preferibili a quelli romani".
Chi aveva ragione, Leopardi o Stendhal? Possibile, come fa capire Francesco de Sanctis, che fossero gli occhi di Giacomo a imprimere quella colitura funerea  alla Roma papalina? Cero Stendhal dà prova di un senso dello humor che a Giacomo manca del tutto.
Riferisce per esempio l'aneddoto grazioso del turista inglese che entra a cavallo nel Colosseo dove sono al lavoro degli operai che stanno consolidando le mura. La sera ne riferisce ai suoi amici: "Il Colosseo è quanto di meglio abbia visto a Roma. Mi piace questo edificio, quando l'avranno terminato sarà magnifico".
Nel descrivere il popolo di Roma, la "plebe" cara a Gioacchino Belli, Giacomo ne parla bene.
Salendo alla tomba del Tasso e alla chiesa di sant'Onofrio al Gianicolo, Leopardi racconta, nella lettera a Carlo del 20 febbraio 1823, questa scena:

Anche la strada che conduce a questo luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. E' tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti , e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni ituli. Anche le fisionomie e le maniere della gente, che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno come la massima parte di questa popolazione.

In una città dove il poeta vede prevalere "intrigo e impostura" (non è stato l'unico del resto) egli sceglie di raccontare quelli che vede applicati ad una vita raccolta, a "professioni utili", persone la cui esistenza poggia "sul vero e non sul falso". La sua è chiaramente una scelta poiché il gran teatro di Roma offre di tutto.

Nei suoi 2279 sonetti Giuseppe Gioachino Belli, fugacemente richiamato più sopra, non si occupa né di letterati né di borghesia. Descrive solo la plebe di Roma, anzi a quella plebe, alla sua lingua degradata e corrotta, dice di voler erigere un monumento. Nell'introduzione ai Sonetti scrive: "Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modelloma sì per dare un'immagine fedele di cosa già esistente, e, più, "abbandonata senza miglioramento" è l'altra faccia, il relativo minore, della borghesia codina, reazionaria, ugualmente superstiziosa, molto ignorante, non casta né pia, che tanto dispiacque a Giacomo. Il 16 dicembre 1822 scrive a Carlo:

Il cardinal Malvasia b.m. metteva le mani in petto alle Dame nella sua conversazione, ed era un débauché di prima sfera e mandava all'inquisizione i mariti e i figli di quelle che resistevano ec. ec. Cose simili del cardinal Brancadoro, simili di tutti i Cardinali (che sono le più schifose persone della terra), simili di tutti i Prelati, nessuno dei quali fa fortuna se non per mezzo delle donne. Il santo papa Pio VII deve il Cardinalato e il Papato a una civetta di Roma [...] si diverte presentemente a discorrere degli amori e lascivia de' suoi cardinali [...]. Una figlia di non so quale artista, già favorita di Lebzeltern, ottenne per mezzo di costui e gode presentemente di una pensione di ottocento scudi l'anno [...]. La Magatti, quella famosa puttana di Calcagnini, ha 700 scudi di pensione dal governo.      

Qui non si tratta di impressioni ma di fatti. Del resto che le favorite dei cardinali (o di altri potenti) guadagnassero a letto la "pensione" è faccenda consueta nei secoli, il potere conosce questi privilegi né è detto che vengano sempre per nuocere. Giulia Farnese per esempio era stata l'amante quindicenne di papa Alessandro VI che di anni ne aveva 58. Durante uno dei loro incontri intimi raccomanda al pontefice il fratello Alessandro Farnese, venticinquenne. Il papa lo fa cardinale. Alessandro diventerà a sua volta papa, col nome di Paolo III. Gli si devono varie novità: l'approvazione dell'ordine dei gesuiti, la convocazine del Concilio di Trento, l'istituzione della Santa Romana e Universale Inquisizione. Gli si deve anche uno sfrenato nepotismo che, curiosamente, porta ad un collegamento tra questa storia e quella che sarà narrata nel capitolo dedicato a Parma. Tra i suoi favoriti c'era il figlio Pier Luigi Farnese, probabilmente il primogenito, al quale nel 1545 (lo stesso anno in cui si apriva il Concilio) affidò le città di Parma e Piacenza separandole dai territori dello Stato pontificio. Nasceva così quel ducato che sarebbe rimasto ai Farnese per circa due secoli e di cui vedremo tra poco gli sviluppo. Quali furono i rapporti di Giacomo con le donne a Roma? Stenti, come nel resto della sua vita. Anche se giovane e non molto malato in quegli anni, il poeta doveva risultare di compagnia non piacevole, non attraeva il suo aspetto fisico, pare fosse molto sgradevole l'odore che spesso emanava da lui. Sarebbe stato necessario conoscere la sua immensa anima per amarlo. Ma non sono molti quelli disposti alla fatica di superare le apparenze e dotati di sufficiente perspicacia. Per conseguenza i suoi rapporti furono per lo più mercenari e, nemmeno quelli, facili. Il 6 dicembre a Carlo:

Al passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi [...] Io fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. [...] E' così difficile il fermare una donna a Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine che [...] non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.

Avezzano a Recanati, il poeta è spaventato dalla vastità di Roma anche se si tratta di una dimensione tutto sommato modesta se confrontata con quella delle grandi metropoli europee. Tale il timore, la diffidenza, l'infelicità, che quasi trascura i grandi monumenti, passeggia per via dei Condotti, percorre il Babbuino da piazza di Spagna a piazza del Popolo. Uno dei pochi luoghi che davvero lo attraggono è il convento di sant'Onofrio alle pendici del Gianicolo. dov'è il sepolcro del Tasso. Anche Chateaubriand, non molti anni prima, era rimasto così incantato dai luoghi da scrivere nelle sue Memorie d'oltretomba: "Se avrò fortuna di finire i miei giorni qui, ho preso accordi per avere a sant'Onofrio una stanzetta adiacente alla camera dove morì il Tasso".
Quando ho visitato il convento, il giardino, le cappelle, l'affaccio su Roma, ho provato io stesso un'emozione simile per un facino che, ancora oggi, è rimasto quasi completamente intatto. Così fu per Leopardi che durante lo scoraggiante soggiorno romano, provò a sant'Onofrio una delle poche vere emozioni. Al fratello Carlo in una lettera famosa del 20 febbraio 1823, scrive "Venerdì 15 febbraio fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e unico piacere che ho provato in Roma".  E poi: "Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino di una chiesuccia. [...] Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto tra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura".
Fu soggiorno infelice quello romano, alla fine di aprile riprende, sconfitto, la strada di casa. Il 26 confida a Pietro Giordani: "Io non sono più buono a cosa alcuna del mondo".
Una curiosa coincidenza lega Leopardi al grande Giuseppe Gioachino Belli. Il poeta romano, che aveva sposato di malavoglia una ricca vedova di 14 anni più anziana, ebbe una passione durata a lungo per la marchesina Vincenza Roberti (che chiamava familiarmente Cencia); andò per anni a trovarla ogni estate nel  paese dove costei risiedeva: Morrovalle, nelle Marche. Anche la marchesina aveva fatto un matrimonio di convenienza col medico condotto del paese, la si potrebbe vedere come una versione marchigiana di Madame Bovary. Facile dunque immaginare quale ventata d'aria nuova, quale eccitamento di novità dovesse rappresentare l'arrivo del poeta, la cui devozione certo non le dispiaceva, da una città come Roma. Del resto non è un caso che tra i sonetti composti dal Belli a Marrovalle (settembre 1831) ce ne siano di accesamente erotici. Un solo breve esempio:

Io sce vorrebbe franca una scinquina
Che nn' addrizzi ppiù tu cor fa' l'occhietto,
Che ll'arte cor mostrà la passerina.
(A Nina, 7 settembre 1831)

Morrovalle si trova a pochi chilometri da Recanati, la giovane Vincenza e i suoi famigliari erano spesso ospiti di casa Leopardi. Sulla base di una premessa per dir così di tipo logistico s'è posta più volte la domanda se i due poeti ebbero modo di conoscersi. Una risposta certa non c'è anche se è possibile che i due si siano incontrati nell'inverno 1831-32 quando il belli abitava in piazza Poli e Leopardi poco distante, in via dei Condotti. Certo la loro frequentazione rimase superficiale e d'occasione ed è un peccato perché alcune caratteristiche li accomunavano.
Erano entrambi sudditi pontifici, per cominciare. Entrambi di temperamento incline alla malinconia. Entrambi colpiti dal clima culturale angusto, retrogrado e avvilente della Roma papale dal quale cercarono scampo - ognuno a suo modo - con le loro opere. Chissà cosa si sarebbero detti se avessero potuto ragionarne insieme. Li dividerà però l'età. Belli era maggiore sette anni e sopravviverà a Leopardi di un quarto di secolo. Giacomo muore a 39 anni, Belli a 72; Giacomo divorato dal suo male, Belli oppresso da una spettrale ipocondria. scrive: "Sono solo in casa come il tempo che mi trascina". Rispondendo alla lettera di un lontano parente che l'aveva definito "poeta nato" scrive di sentirsi piuttosto "un poeta morto". Curiosamente sono quasi alla lettera le stesse parole che Giacomo riferì a se stesso parecchio tempo prima che la morte lo sottragga finalmente alle sue pene. Questo accadrà il 14 giugno 1837. Qualche giorno dopo Antonio Ranieri scrive ad un amico: "Non è da dolere che abbia finito di penare; ma sì per 40 anni abbia dovuto desiderare di morire: questo è il dolore immedicabile".






1 commento:

  1. fuori tema, ma se passi da me (http://stelladineve.blogspot.it) c'è il premio Dardos per te!

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