giovedì 23 agosto 2012

La figura di Adelaide Antici, madre di Giacomo Leopardi

La figura di Adelaide Antici, madre di Giacomo Leopardi


   Un ritratto della marchesa 
Adelaide Antici Leopardi


Chi era Adelaide Antici?

«Era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendenti e intelligenti, benché velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d'un castano chiaro tendente al biondo, da l'aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l'austerità naturale; e il viso, soprattutto gli occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto. Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo; nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un'antica matrona travestita». [1]

La marchesa, Adelaide Antici, moglie di Monaldo Leopardi, e madre di Giacamo Leopardi, è stata una figura materna distante per l'intellettuale di Recanati. Per Giacomo e per gli altri fratelli (Carlo e Paolina), infatti, la marchesa è stata sempre una madre fredda, affettivamente distaccata, e opprimente. Aveva un modo tutto suo di occuparsi dei figli, leggendo la loro corrispondenza e osservando tutto quello che facevano: «lo sguardo di nostra madre ci accompagnava sempre, era l'unica sua carezza», ricorda il figlio Carlo, mentre la figlia Paolina scrisse di sentirsi oppressa da una madre che «gira per tutta la casa, si trova per tutto e a tutte le ore». 
Chi colmava le carenze affettive della madre, nell'abitazione recanatese, era Monaldo, che faceva sia le veci di padre che di madre appunto. Monaldo, dopo gli insuccessi economici (aveva perso molti scudi, per un precedente fidanzamento fallito, e per una errata speculazione sul commercio del grano), perde il ruolo vero e proprio di capofamiglia, lasciando la totale amministrazione dei beni di casa Leopardi, alla moglie, dedicandosi anima e corpo all'istruzione dei figli, soprattutto a quella di Giacomo. 
Improvvisatasi capofamiglia Adelaide Antici, risollevò magistralmente le sorti economiche della famiglia Leopardi, riportandola ai vecchi albori.

La marchesa non usciva mai di casa, la sua fortezza, casa Leopardi, era il mondo, e tutto ciò di cui necessitava una famiglia e un essere umano (secondo lei) si trovava lì dentro. Non usciva mai né voleva che estranei invadessero il suolo domestico, sia fisicamente, sia tramite rapporti epistolari, come già detto precedentemente, leggeva continuamente le corrispondenze che erano dirette ai figli. 
Neanche la sua fede incrollabile verso il Signore la faceva muovere di casa, non andava più a messa, e se provava ad allontarsi dalla sua dimora, aveva degli improvvisi mancamenti.
Discutibile e poco umano il rapporto con il figlio e con la sua malattia*, vedeva i mali di Giacomo, come quasi un segno divino, era contenta che i figli morissero, e doveva essere lieta che il figlio fosse "deforme" e rinunciasse completamente ai piaceri e alle gioie della giovinezza, perché le morti e le malattie dei figli erano un dono che lei faceva a Dio e che Dio ricambiava. 

Su questo pensiero distorto, infatti, lo stesso Giacomo scrisse di lei impietosamente: «Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non procurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù; se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva nell'opinione sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perché n'ebbe molti) e non lasciava passare, anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione de' figli, al produrli nel mondo, al collocarli [...] questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo ed era stata così ridotta dalla sola religione».  

Al contrario, Monaldo, si affliggeva e piangeva continuamente per le malattie dei figli e di Giacomo.

Adelaide Antici morirà nel 1857, precisamente venti anni dopo Giacomo e dieci dopo Monaldo. La figlia Paolina che subì molto questa figura materna opprimente, forse più degli altri, vivrà la morte della madre come una vera e propria liberazione.




* Giacomo Leopardi era affetto da tubercolosi ossea (o morbo di Pott), possedeva una vista precaria, aveva due gobbe, una nella parte anteriore e una nella parte posteriore del torace. La parte superiore del corpo era meno sviluppata rispetto a quella inferiore, era alto 1,41 cm.

[1] E. Boghen-Conigliani, La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi, Firenze, Barbera, 1898, pp. 3-4.

domenica 5 agosto 2012

Umberto Galimberti: Uomini e macchine, la vittoria è della tecnica

 

Umberto Galimberti: Uomini e macchine, 

la vittoria è della tecnica



Tratto da “la Repubblica”, 25 marzo 2008


                                                                     Umberto Galimberi


Era il 1968, gli anni della contestazione giovanile, e sulla facciata del liceo dove ero stato nominato commissario per gli esami di maturità c’era scritto: “Servire il popolo”. L’indomani, per tutta risposta, sotto quella scritta ne era comparsa un’altra: “Il popolo si serve da solo”. Non era finita lì, perché dopo qualche giorno comparve la scritta definitiva: “Self service”. Mai avrei pensato che questo sarebbe diventato il programma per gli anni a venire dove, neanche a cercarlo, trovi più nessuno che faccia qualcosa per te.
Se vai al supermercato gironzoli da solo a cercare i prodotti che ti servono senza che nessuno più ti rivolga la parola, se non la cassiera quando, un po’ seccata, ti dice il prezzo che non sei riuscito a leggere nella finestrella collegata al suo computer. Se vai alla stazione, per evitare le code, hanno disposto per te delle macchinette che, opportunamente digitate, ti rilasciano il biglietto che ti serve. Mi dicono che in alcuni aeroporti americani accade la stessa coda per i check-in.
Non parliamo poi dei servizi bancari, dove non hai più bisogno di incontrare un impiegato perché, o per via telematica o in quei loculi simili a confessionali, puoi effettuare versamenti o prelievi senza scambiare una parola con nessuno. Anche se vuoi bere un caffè, nero o macchiato, lungo o ristretto, basta che digiti le tue preferenze e la macchina fa tutto da sé.
Persino la benzina te la puoi fare da te, se vuoi risparmiare quello zero virgola che i distributori ti scontano se ti arrangi da solo.
L’inverno scorso ero a Londra e chiesi al portiere dell’albergo se mi poteva chiamare un taxi. Il portiere per tutta risposta mi piazzò davanti un telefono e, senza troppa cortesia, mi disse: “Help yourself”, “provvedi da te”.
Un po’ smarrito e pervaso da un senso di spaesamento mi sono chiesto: ma davvero è proprio finita la comunicazione tra gli uomini? Davvero non abbiamo più bisogno di nessuno? E nessuno è più disposto a fare qualcosa per noi? Sembra proprio di sì. Anche se la pubblicità ti descrive un mondo dove tutti sembrano pronti a soccorrerti e a soddisfare ogni tua più piccola esigenza: dal lavandino che vuoi iperlucido, agli yogurt che non ti fanno ingrassare, dai prodotti che risolvono i tuoi problemi di stitichezza, alle tariffe telefoniche sempre più convenienti, alle creme più diverse che ti consentono di accarezzarti da solo, dal momento che più nessuno ti accarezza.
Basta pagare. E poi tutto il mondo è ai tuoi piedi, per i tuoi bisogni necessari o superflui, per le tue esigenze reali o immaginarie.
Ma nessun gesto gratuito, nessuna gentilezza senza compenso, nessuna faccia umana che ti dica qualcosa anche di approssimativo. Solo o sempre più un video che ti dice cose precise se appena sai digitare e, in perfetta solitudine, puoi vendere o comprare, comunicare senza un interlocutore con nome e cognome, perfino fare sesso nella formula “help yourself”.
La tecnica ci fa risparmiare cose, tempi, attese, inserendoci in quei circuiti di perfetta efficienza e funzionalità, dove la ragione strumentale, quella delle macchine, regola il nostro modo di vivere senza doverci affidare al linguaggio umano, pieno di equivoci, di fraintendimenti, ma anche di quella sovrabbondanza discorsiva che certo non è funzionale al rapido raggiungimento dello scopo, ma che fa così bene all’anima, perché consente al dolore di diluirsi nella comunicazione, alla gioia di espandersi nella condivisione, alla noia di attenuarsi nell’incontro imprevisto, alla gratuità della conversazione di acquisire altri punti di vista capaci di schiodare i nostri problemi da quel vicolo cieco in cui la nostra solitudine li aveva cacciati.
Il mondo della vita sta esaurendosi e rattrappendosi nel mondo della tecnica. E la solitudine si espande diventando una solitudine di massa, dove persino i “buongiorno” e i “buonasera” che scambiamo con chi sale l’ascensore con noi non lasciano trasparire nessun vero interesse. Semplici password per sottrarsi all’imbarazzo del silenzio in questo anonimato di massa, dove nessuna parola viene sprecata e tanto meno si fa veicolo di un incontro vero.
E poi chiamano tutto questo “progresso”, mentre in realtà è impoverimento del linguaggio, il suo rattrappimento nella pura e semplice funzionalità, dove le macchine prendono il posto degli uomini e fanno per noi tutto quello che gli uomini non sanno più fare o non hanno più voglia di fare.
“Provvedi da te” è ormai il motto generalizzato. In fondo c’è sempre una macchina che ti può soccorrere, mentre gli uomini diventano ogni giorno di più inconvenienti da evitare, in quel deserto della comunicazione che non cessa di espandersi a detrimento del mondo della vita, che forse non conosce le risposte perfettamente funzionali della tecnica, ma certamente non ignora le parole che sanno toccare l’anima e farla sentire in ogni istante meno sola.