giovedì 18 aprile 2013


Massimo Recalcati: Il complesso di Telemaco

L'inferno di Salò




L'inferno di Salò

Un ultimo riferimento cinematografico può sintetizzare ancora più radicalmente il fenomeno dell'evaporazione del padre e i suoi effetti nel nostro tempo. Penso all'ultimo film-testamento di Pier Paolo Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pasolini lo concepisce volutamente come un film impossibile da vedere. Accade in gran parte dell'arte contemporanea più estrema: il reale senza veli del Terrificante costringe lo spettatore a indietreggiare nell'angoscia; l'orrore della scena fa abbassare gli occhi, rende impossibile lo sguardo, come in una delle ultime scene, dove una vittima viene sodomizzata e, nello stesso tempo, prima di essere uccisa senza pietà, scalpata brutalmente con un coltello. L'ultimo racconto di Pasolini vuole esibire il reale del godimento senza filtri simbolici: supplizi sadici, coprofagia, umiliazioni, sevizie, assassinii gratuiti. "Tutto è buono quando è eccessivo," afferma bataillianamente uno dei quattro libertini sadicinella prima scena del film. Le vittime appaiono come puri strumenti al servizio della sola Legge del godimento: corpi straziati, sgozzati, martoriati, bruciati, torturati, ammazzati cinicamente. In questo universo senza Dio, non c'è salvezza, non c'è orizzonte, non c'è desiderio. Tutto si consuma nel chiuso claustrofobico della volontà di godimento. Mentre per un lungo tempo della propria opera Pasolini aveva fatto valere una versione rousseauiana e batailliana del corpo sessuale come potenza trasgressiva che sfida la dimensione repressiva e coercitiva della legge nel nome di un ritorno (impossibile) alla Natura, in Salò egli sembra prendere congedo da questa rappresentazione del conflitto tra la Legge e il desiderio riconoscendo il culto del godimento e la logica del suo puro dispendio - presente in Sade e teorizzata da Bataille - sono divenuti un regime di amministrazione e manipolazione biopolitica dei corpi sotto la nuova Legge dettata dal discorso del capitalista: il sesso compulsivo, l'affermazione di una libertà senza Legge, la ripetizione eternizzante di tutti gli scenari sadiani mostrano che il nostro tempo ha fatto del godimento un imperativo che anziché liberare la vita la opprime rendendola schiava.(1) In questo risiede la denuncia politica radicale che attraversa Salò. Non si tratta affatto come aveva pensato Cesare Musatti, di un rigurgito della sessualità perversa-polimorfa di fronte al fallimento di un accesso normativo a una sessualità pienamente genitale che rivelerebbe il fantasma inconscio del suo autore,(2) ma del tentativo, assai più "alto", di descrivere l'inconscio del discorso capitalista come radicale distruzione dell'Eros del desiderio(3). Non si tratta affatto della messa in scena del teatrino privato che caratterizzerebbe il fantasma perverso di Pasolini - secondo una applicazione meramente patografica della psicoanalisi all'opera d'arte -, ma dell'esibizione dell'"eccesso" come affermazione di una Legge che rifiuta ogni limite e che qualifica la degradazione neocapitalista del corpo erotico e mero strumento di godimento. Non si tratta di una rappresentazione provocatoria della sessualità polimorfa dell'infanzia, ma di un godimento disperato e totalmente anti-erotico che senza rispetto alcuno nei confronti della Legge della castrazione simbolica si impasta rovinosamente con la pulsione di morte. Non è questa una delle cifre fondamentali del nostro tempo, del tempo in cui sembra trionfare l'imperativo a godere come unica forma della Legge?
Avendo visto Salò una sola volta da giovane, nel 1976, avevo memorizzato erroneamente una scena in cui una ragazza e un ragazzo, mentre venivano fatti affogare in un mastello di merda, reagivano alla loro morte imminente l'una con il segno della croce e l'altro alzando il pugno chiuso. Dopo aver recentemente rivisto il film di Pasolini mi sono reso conto che questa scena non esiste, ma era solo il frutto di una mia combinazione inconscia di altre due presenti nel film. In una di queste una ragazza si trova immersa nella merda e invoca il Dio cristiano - "Dio, Dio, perché ci hai abbandonati?" -, mentre in un'altra un milite di Salò viene scoperto mentre fa l'amore con una serva - ovvero trasgredisce la Legge che imponendo che vi sia solo godimento vieta paradossalmente la possibilità dell'amore - e viene crivellato brutalmente di colpi di pistola. Prima di morire egli ha il tempo di alzare fieramente il pugno chiuso. Questo "errore della memoria" contiene in realtà un'interpretazione soggettiva che mi pari resti fedelissima alla narrazione pasoliniana: il discorso capitalista affoga nella merda e nel sangue gli ideali (cristiani e comunisti) in nome del godimento come unica forma paradossalmente possibile dell'Ideale e della Legge. Più precisamente, Pasolini raggiunge Lacan quando mostra come nella perversione il soggetto viene eletto alla dignità di un nuovo Dio, di un Dio che ha un potere assoluto sull'Altro, di u-n Dio del godimento che annulla ogni senso del limite. Non è forse questa l'ambizione suprema che abita il terribile quartetto di Salò? Lo dichiara espressamente Pasolini stesso in una intervista sul marchese de Sade, rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo, quando afferma che "i libertini, nell'adoperare i corpi delle loro vittime come cose, non sono altro che dei in terra, cioè il loro modello è sempre Dio".(4)

                                                 Massimo Recalcati, psicoanalista, classe 1959
                                                     

Come in Moretti (5), anche nell'ultimo film di Pasolini i simboli del cristianesimo e del comunismo naufragano miseramente. Mentre però Moretti evidenzia i sintomi mentali del nostro tempo (afasia, amnesia), Pasolini illustra focaultianamente l'ontologia del corpo che sottende questi sintomi, ovvero la riduzione perversa del corpo stesso a pura macchina sadiana di godimento. Per questo il nostro tempo - così come viene anticipato profeticamente da Salò - è il tempo in cui gli ideali si rivelano inconsistenti, salvo quello del godimento (di morte) come fine ultimo della vita. "Non sai che noi vorremmo ucciderti mille volte?" grida uno dei torturatori in faccia a una vittima terrorizzata. La macchina del discorso capitalista consuma infinitamente se stessa così come accade negli scenari eternamente ripetitivi e claustrofobici del marchese de Sade: la loro serialità anonima mostra come il godimento debba ritornare sempre allo stesso posto per scongiurare l'evento della morte. (6) Si tratta di mostrare che la sola cosa per cui vale la pena vivere è il proprio godimento, che non esiste altra Legge al di fuori di quella imposta dall'imperativo del godimento. Questo è il contenuto profondamente perverso di Salò e questa è la posta in gioco decisiva del nostro tempo. Per cosa vale la pena vivere? Esiste una risposta convincente a questa domanda, alternativa a quella sadiana? Voglio dire: esiste una alternativa etica a questa logica che non sia il ricorso moralista al "buon-senso" o all'universalità astratta di una ragion pratica di matrice kantiana? Esiste, intendo, una alternativa etica che può opporsi con forza all'affermazione del godimento cinico come unico valore della vita? Non è questa una domanda decisiva per il nostro tempo che promuove il godimento dell'Uno come beatificazione terrena della vita? E' possibile un altro avvenire rispetto a quello previsto dalla macchina del discorso del capitalista, dalla macchina impazzita del godimento? Non è questa la risposta che si attendono da noi le nuove generazioni? Esiste un Altro godimento, rispetto a quello libertino rappresentato da Pasolini in Salò, che possa rendere la vita degna di essere vissuta?
L'indebolimento e la crisi generalizzata del discorso educativo fanno emergere la dimensione traumatica del godimento sganciato dalla Legge della castrazione. E' il tema clinico che ho sviluppato ampiamente ne L'uomo senza inconscio : nel tempo del declino dell'Altro simbolico, del naufragio dell'Ideale, del suo smerdamento senza ritorno, il godimento mortale sembra non trovare più argini simbolici adeguati. Se l'Ideale aveva la funzione di orientare il godimento differendone il soddisfacimento, canalizzando positivamente la sua forza pulsionale, il suo tramonto sembra lasciare l'esistenza sprovvista di bussola. Nondimeno la pratica della psicoanalisi non può fomentare il recupero nostalgico dell'Ideale. Essa punta piuttosto sul desiderio come possibilità di realizzare  - grazie all'apporto della Legge della parola e al rifiuto del godimento mortale - un godimento nuovo, supplementare, un godimento Altro, un Altro godimento rispetto a quello mortale che Lacan nomina col termine plusgodere. Quello che dobbiamo notare oggi è che l'indebolimento dell'azione normativa del Simbolo ha reso la stessa trasgressione un abito conformista della pulsione. Il godimento fine a se stesso è una forma radicale dello spirito più reazionario. E' molto più trasgressivo giurare amore eterno che passare da un corpo all'altro senza alcun vincolo amoroso. E' molto più trasgressiva l'esperienza della fedeltà allo Stesso che non il culto aleatorio del Nuovo. E' molto più trasgressiva l'apparizione del senso del pudore che non la sua estinzione. Niente, infatti, sembra più degno di risultare osceno! Il proliferare del godimento sganciato dalla Legge della parola mostra che l'azione del simbolico non è più in grado di temperare il reale del godimento che invece prolifera illimitatamente. Il sentimento dell'osceno implica, infatti, una credenza nel limite, nel valore etico del pudore, mentre nell'epoca del trionfo del disincanto cinico e narcisista, provocato dall'affermazione del discorso del capitalista, questa credenza è destinata a eclissarsi e la nostra epoca diviene quella del godimento in eccesso, l'epoca dei traumi.


Trascrizione tratta da "Il complesso di Telemaco", di Massimo Recalcati, Feltrinelli, 2013.




Note:

1 - E' quello che nota puntualmente Antonio Tricomi nel suo eccellente lavoro sull'opera di Pasolini: "La logica del dispendio non è più una alternativa praticabile in età di neocapitalismo trionfante. Se, per esempio, Bataille aveva potuto credere di dover riconoscere alla lordura un incredibile valore trasgressivo, ora Pasolini è costretto ad accorgersi che anche questa è strumento del potere: i produttori costringono i consumatori a mangiare merda". A. Tricomi, Sull'opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005, p. 421.
2 - C. Musatti, Il Salò di Pasolini regno della perversione, in "Cinema Nuovo", n. 239, gennaio-febbraio 1976.
3 - Tentativo la cui importanza cruciale non sfugge invece a G.C. Ferretti, Pasolini. L'universo orrendo,  
Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 106 - 110. Sul concetto lacaniano di "discorso del capitalista", rinvio a M. Recalcati, L'uomo senza inconscio, cit., in part. parte prima.
4 - Citazione tratta da A. Tricomi, Sull'opera mancata di Pasolini, cit., pag. 417.
A proposito di Lacan, si veda, J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1976, pp. 764-791.
5 - Si fa riferimento al film "Habemus Papam".
6 - In questo senso la villa di Salò ricorda quella - assai più farsesca non meno tragica - di Arcore nei suoi anni più "gloriosi"; in entrambi i casi sulla scena non è tanto la fantasia pervertita dei suoi attori (quale fantasia sessuale non lo è?), né la dimensione erotica del desiderio, ma il terrore del "padrone" di fronte alla verifica dei propri limiti, al crollo dell'illusione del proprio fantasma di autogenerazione, alla imminenza sovrastante della propria morte. Si tratta allora di mostrare lo smerdamento dell'Ideale, la riduzione di ogni Ideale a puro sembiante, per affermare che la sola cosa eterna, la Cosa che conta, la sola Legge capace di scongiurare l'inevitabilità della morte, è la "volontà di godimento".





mercoledì 21 novembre 2012

Bauman: "Le emozioni passano i sentimenti vanno coltivati"

Bauman: "Le emozioni passano
i sentimenti vanno coltivati"

Fonte: Repubblica.it - 20 novembre 2012 


 
Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco


Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto di lavoro. Il grande sociologo spiega come i legami siano stati sostituiti dalle "connessioni". E aggiunge: "Ogni relazione rimane unica: non si può imparare a voler bene". Disconnettersi è solo un gioco. Farsi amici offline richiede impegno.

Amarsi e rimanere insieme tutta la vita. Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o folle, a seconda dei punti di vista. Zygmunt Bauman sull'argomento è tornato più volte (lo fa anche nel suo ultimo libro Cose che abbiamo in comune, pubblicato da Laterza). I suoi lavori sono ricchi di considerazioni sul modo di vivere le relazioni: oggi siamo esposti a mille tentazioni e rimanere fedeli certo non è più scontato, ma diventa una maniera per sottrarre almeno i sentimenti al dissipamento rapido del consumo. Amore liquido, uscito nel 2003, partiva proprio da qui, dalla nostra lacerazione tra la voglia di provare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico.

Cos'è che ci spinge a cercare sempre nuove storie?

"Il bisogno di amare ed essere amati, in una continua ricerca di appagamento, senza essere mai sicuri di essere stati soddisfatti abbastanza. L'amore liquido è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame".

Dunque siamo condannati a vivere relazioni brevi o all'infedeltà...

"Nessuno è "condannato". Di fronte a diverse possibilità sta a noi scegliere. Alcune scelte sono più facili e altre più rischiose. Quelle apparentemente meno impegnative sono più semplici rispetto a quelle che richiedono sforzo e sacrificio".

Eppure lei ha vissuto un amore duraturo, quello con sua moglie Janina, scomparsa due anni fa.

"L'amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l'uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. Mi creda, l'amore ripaga quest'attenzione meravigliosamente. Per quanto mi riguarda (e spero sia stato così anche per Janina) posso dirle: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni".

Oggi viviamo più relazioni nell'arco di una vita. Siamo più liberi o solo più impauriti?

"Libertà e sicurezza sono valori entrambi necessari, ma sono in conflitto tra loro. Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza. La maggior parte delle persone cerca di trovare un equilibrio, quasi sempre invano".

Lei però è invecchiato insieme a sua moglie: come avete affrontato la noia della quotidianità? Invecchiare insieme è diventato fuori moda?

"È la prospettiva dell'invecchiare ad essere ormai fuori moda, identificata con una diminuzione delle possibilità di scelta e con l'assenza di "novità". Quella "novità" che in una società di consumatori è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità. Tendiamo a non tollerare la routine, perché fin dall'infanzia siamo stati abituati a rincorrere oggetti "usa e getta", da rimpiazzare velocemente. Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto dello sforzo e di un lavoro scrupoloso".

Abbiamo finito per trasformare i sentimenti in merci. Come possiamo ridare all'altro la sua unicità?

"Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l'opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. L'amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l'altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l'amore. Non troveremo l'amore in un negozio. L'amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana".

Forse accumuliamo relazioni per evitare i rischi dell'amore, come se la "quantità" ci rendesse immuni dell'esclusività dolorosa dei rapporti.

"È così. Quando ciò che ci circonda diventa incerto, l'illusione di avere tante "seconde scelte", che ci ricompensino dalla sofferenza della precarietà, è invitante. Muoversi da un luogo all'altro (più promettente perché non ancora sperimentato) sembra più facile e allettante che impegnarsi in un lungo sforzo di riparazione delle imperfezioni della dimora attuale, per trasformarla in una vera e propria casa e non solo in un posto in cui vivere. "L'amore esclusivo" non è quasi mai esente da dolori e problemi  -  ma la gioia è nello sforzo comune per superarli".

In un mondo pieno di tentazioni, possiamo resistere? E perché?

"È richiesta una volontà molto forte per resistere. Emmanuel Lévinas ha parlato della "tentazione della tentazione". È lo stato dell'"essere tentati" ciò che in realtà desideriamo, non l'oggetto che la tentazione promette di consegnarci. Desideriamo quello stato, perché è un'apertura nella routine. Nel momento in cui siamo tentati ci sembra di essere liberi: stiamo già guardando oltre la routine, ma non abbiamo ancora ceduto alla tentazione, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno. Un attimo più tardi, se cediamo, la libertà svanisce e viene sostituita da una nuova routine. La tentazione è un'imboscata nella quale tendiamo a cadere gioiosamente e volontariamente".

Lei però scrive: "Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore e la stessa morte ". Ci si innamora una sola volta nella vita?

"Non esiste una regola. Il punto è che ogni singolo amore, come ogni morte, è unico. Per questa ragione, nessuno può "imparare ad amare", come nessuno può "imparare a morire". Benché molti di noi sognino di farlo e non manca chi provi a insegnarlo a pagamento ".

Nel '68 si diceva: "Vogliamo tutto e subito". Il nostro desiderio di appagamento immediato è anche figlio di quella stagione?
"Il 1968 potrebbe essere stato un punto d'inizio, ma la nostra dedizione alla gratificazione istantanea e senza legami è il prodotto del mercato, che ha saputo capitalizzare la nostra attitudine a vivere il presente".

 I "legami umani" in un mondo che consuma tutto sono un intralcio?
"Sono stati sostituiti dalle "connessioni". Mentre i legami richiedono impegno, "connettere" e "disconnettere" è un gioco da bambini. Su Facebook si possono avere centinaia di amici muovendo un dito. Farsi degli amici offline è più complicato. Ciò che si guadagna in quantità si perde in qualità. Ciò che si guadagna in facilità (scambiata per libertà) si perde in sicurezza".

Lei e Janina avete mai attraversato una crisi?
"Come potrebbe essere diversamente? Ma fin dall'inizio abbiamo deciso che lo stare insieme, anche se difficile, è incomparabilmente meglio della sua alternativa. Una volta presa questa decisione, si guarda anche alla più terribile crisi coniugale come a una sfida da affrontare. L'esatto contrario della dichiarazione meno rischiosa: "Viviamo insieme e vediamo come va...". In questo caso, anche un'incomprensione prende la dimensione di una catastrofe seguita dalla tentazione di porre termine alla storia, abbandonare l'oggetto difettoso, cercare soddisfazione da un'altra parte ".

Il vostro è stato un amore a prima vista?
"Sì, le feci una proposta di matrimonio e, nove giorni dopo il nostro primo incontro, lei accettò. Ma c'è voluto molto di più per far durare il nostro amore, e farlo crescere, per 62 anni".

lunedì 24 settembre 2012

I segreti d'Italia, di Corrado Augias: Leopardi a Roma

I segreti d'Italia, di Corrado Augias: 

Leopardi a Roma
  


La copertina del libro "I segreti d'Italia"
di Corrado Augias (2012)


In una bella giornata d'autunno, ho percorso le strade attraversate da Leopardi nel suo viaggio a Roma. Era autunno anche per lui, quello del 1822, aveva 24 anni ed era la prima volta che lasciava "l'odiato sepolcro" di Recanati. Il poeta cercava una liberazione che però a Roma non trovò. Per arrivare nella capitale (dello stato pontificio) impiegherà quasi una settimana a bordo di una carrozza degli Antici, parenti per parte materna. Risale l'Appennino percorrendo una strada tortuosa incassata nel fondo d'una valle che appare oggi come immutata da allora, con i fianchi coperti di boschi fitti, un antico romitorio. Attraversa la piana luminosa di Colfiorito, ridiscende verso Foligno ("Come chi d'Appennin varcato il dorso / presso Fuligno...", scriverà nei Paralipomeni della Batracomiomachia), visita le fonti del Clitumno. La piccola comitiva si ferma a dormire a Spoleto all'Albergo della Posta. Da lì scrive al padre Monaldo una lettera così sgangherata che qualche giorno dopo, arrivato finalmente a Roma, si sente in divere di chiarirla con un'altra lettera a suo fratello Carlo: "Fa leggere questa lettera al signor padre, al quale io non so quello che mi scrivessi a Spoleto: perché dovete sapere che io scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini, ecc.". Da questa corrispondenza apprendiamo tra l'altro che Giacomo, anche se poco più che ventenne, godeva di una certa fama come poeta e che giustamente se ne compiace. Di quella stessa rumorosa tavolata di Fabrianesi e Iesini faceva parte anche un prete in vena di scherzi grossolani. Nella lettera lo descriveva così: "Un birbante di prete furbissimo, che era con loro, si propose di dar la burla anche a me come la dava a tutti gli altri; ma credetemi che alla mia prima risposta cambiò tuono tutto d'un salto, e la sua compagnia divenne buonissima e gentilissima come tante pecore".
Lascia Spoleto, attraversa Terni, Narni, Otricoli, Civita Castellana, e infine Roma che s'annuncia dall'alto della strada col suo frastagliato profilo di campanili e di cupole tutte dominate dalla mole di San Pietro. Lo spettacolo lo colpisce; alla sorella Paolina scrive (3 dicembre): "la cupola l'ho veduta io, colla mia corta vista, a cinque miglia di distanza [...] e l'ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce come voi vedete di costà gli Appennini".



                                              
Monumento a Giacomo Leopardi di U. Panichi - Recanati piazza centrale


Ho fatto lo stesso itinerario ma a ritroso, cioè da Roma verso Recanati. Volevo vedere i profili dei monti, le gole, le irsute dorsali, le mura che egli vide, per esempio quelle "spaventose" di Spoleto, che oggi certo non spavento più nessuno come non spaventa l'immane rocca albornoziana che sovrasta la città. Strana storia quella della Rocca. Innocenzo VI la fece edificare come piazzaforte a difesa dei territori della Chiesa. Il suo legato cardinale Egidio Albornoz chiamò l'architetto Matteo di Giovanello detto il Gattapone e gli commissionò l'opera. Eravamo nel 1362 e per alcuni secoli la rocca fu protagonista nella storia di Spoleto.
La posizione dominante, gli agi di cui fu arricchita permisero di ospitarvi alcuni dei maggiori personaggi del tempo. Lucrezia Borgia, per fare un esempio, figlia di papa Alessandro VI, governatrice del territorio alla fine del Quattrocento. In seguito il governo pontificio destinò la rocca a carcere e tale rimase anche con il Regno d'Italia, fino al 1982. La storia italiana è così fitta di rimandi e d'incroci che si rischia continuamente di deviare per sentieri traversi. Dobbiamo tornare a Leopardi in viaggio verso Roma.
Ovviamente molte cose sono cambiate, soprattutto il numero e la densità delle case; qualche tratto di strada però credo, a parte l'asfalto, sia rimasto tale e quale, a guidicare dalla serie di curve e di saliscendi; e poi, frugando con lo sguardo, si ritrovano qua e là profili di monti, lembi ora di bosco ora di campagna che appaiono oggi proprio come dovette vederli lui, con i suoi occhi malandati e con la sua "corta vista".
L'intenzione del poeta era di stabilirsi nella capitale, e comunque di liberarsi dell'asfissiante tutela paterna. Per sfuggire a quella galera era disposto a tutto, perfino a farsi prete. Solo a parole, però. Perché quando il cardinale Consalvi segretario di Stato di Pio VII, sollecitato in suo favore, gli offre di "indossare l'abito di corte" ovvero una posizione a metà tra quella prelatizia e quella laicale, che gli avrebbe permesso una rapida carriera nella Chiesa, Giacomo rifiuta per uno scatto d'orgoglio o un più profondo moto di ripulsa e scrive che la sua vita "dev'essere più indipendente che sia possibile".
A Roma resiste più o meno sei mesi, ospite dei cugini Antici, che lo allogiano in una fredda stanzetta al piano ammezzato o forse nel sottotetto, comunque non al piano nobile. Il povero poeta si lamenta spesso nelle lettere dei geloni che lo tormentano e che, una volta aperti, diventano piccole piaghe dolorose lentissime a chiudersi.
Gli Antici erano una tipica famiglia papalina né povera né troppo ricca, allegra e sordida, disordinata e priva di interessi culturali. dai gusti tristemente opachi che Giacomo giudica: "momentanei, indefinibili, imprevedibili, inafferrabili". Il suo racconto delle conversazioni che si tenevano a tavola dà il quadro della loro angustia.
Le lettere ai fratelli Carlo e Paolina ci mettono sotto gli occhi una vasta dimora gelida, dalle pareti spoglie, vi s'immagina una servitù rivestita di livree lise, calzature malconce, avvezza in cucina a rubacchiare gli avanzi nei piatti per compensare il magro salario.
Le 945 lettere dell'epistolario, che sono il vero romanzo della sua vita, ci danno personaggi e bozzetti indimenticabili. Il 25 novembre scrive a Carlo: "Sono obbligato a far la vita di casa Antici; quella vita la quale noi due, ragionando insieme, non sapevamo qual fosse né in che consistesse né come potesse reggersi né se fosse vita in alcun modo".
Anche la vita a Recanati, nel bel palazzo avito, non doveva essere molto diversa, a parte la notevole erudizione del padre Monaldo fiero della biblioteca dove Giacomo consuma gran parte della giovinezza.
Proprio a "Casa Leopardi", Alfredo Panzini ha dedicato un bel saggio che contiene tra l'altro questo espressivo ritratto del conte Monaldo: "Uno dei gentiluomini più singolari dei suoi tempi, la Chiesa e la Spada cioè il trono e l'altare, ebbero pochi difensori più strenui e convinti di lui [...]. Né alto né basso era il signor Conte; né bello né brutto, rasato -- s'intende -- il volto e con la zazzera all'indietro. Vestì sempre di nero alla maniera dell'Ancien Régime, calzoni corti anche quando usavano lunghi, calze nere, scarpe basse e con fibbie d'argento, cravatta bianca [...] curioso è il vanto di aver portato la spada ogni giorno, come i cavalieri antichi [...]. Dall'alto palazzo comitale nella sua Recanati egli guardava il mondo. Era in continua corrispondenza coi più famosi reazionari, gesuiti, legittimisti del tempo".
Eppure, a modo suo, negli anni soffocanti della Restaurazione dopo gli sconvolgimenti napoleonici, Monaldo riesce ad essere un padre affettuoso, cero come poteva esserlo un uomo di tal genere, imperterrito clericale, nostalgico del passato, timoroso d'ogni possibile futuro. Amò suo figlio, ma non riuscì mai a capirlo. Giacomo, come spesso accade, ebbe nei suoi  confronti sentimenti tra odio e amore. Alla fine dovette prevalere l'amore se possiamo giudicarlo dalle intestazioni delle lettere. Le prime si rivolgono a lui con "Mio signor padre"; si passa poi ad un meno rigido "Carlo signor padre", nelle ultime, strazianti, lo chiama amorevolmente "Carissimo papà".
Molto più netti i sentimenti di Giacomo nei confronti di sua madre Adelaide Antici. Quando nel 1797 il conte Monaldo la prende in sposa, la marchesina Adelaide ha 19 anni. Gli darà dieci figli, cinque dei quali sopravvissuti, diventa presto una di quelle padrone di casa che girano con le chiavi che tintinnano attaccate alla cintura, attenta al livello del vino nelle bottiglie e al numero dei caci nella dispensa. Monaldo, che ogni anno, implacabile, la mette incinta, è ben presto ridotto al rango di "pupillo bene sorvegliato e privo di denaro". Atmosfera quasi lugubre quella di casa Leopardi. Paolina, la povera Paolina, non bella, oppressa dai genitori, destinata ad un malinconico zitellaggio, vede sua madre così: "Quello che posso vedere dalla mia finestra è sempre sorvegliato da mia madre (la quale) gira per tutta la casa, si trova per tutto, a tutte le ore".
Giacomo dà alla madre, nello Zibaldone, una descrizione terribile:

Non compiangeva quei genitori che perdevano i lori figli bambini ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati in paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente [...].
Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo ed era stata così ridotta dalla sola religione.

Come apparve dunque la Roma di Pio VII agli occhi di Giacomo? In due parole direi: una città vasta e in ogni senso misera: culturalmente povera, con i salotti pieni di letterati talvolta brillanti ma spaventosamente disinformati e provinciali. Il 9 dicembre 1822 scrive al padre:

Letterati [...] io n'ho veramente conosciuti pochi, e questi pochi m'hanno tolto la voglia di conoscerne altri. [...] Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell'uomo, è l'Antiquaria. [...] La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino e il greco; senza [le] quali lingue, ella ben vedo che cosa mai possa essere lo studio dell'antichità.

Quando racconta al fratello Carlo dell'abate Francesco Cancellieri, erudito e storico, lo dipinge così: "Ieri fui da [Cancellieri], il quale è un coglione un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile".
Più dei vaniloqui di quel "coglione" di abate, impressiona l'acuta percezione che Giacomo ha della povertà culturale romana. Parla il filologo, e dei più avvertiti, quando fa notare che occuparsi di antichità classiche senza possedere le lingue della classicità significa negarsi in partenza ogni vera possibilità di conoscere.
In quello stesso dicembre scrive alla sorella Paolina:

La frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. [...] Questa mattina (per dirvene una sola) ho sentito discorrere gravemente e lungamente sopra la buona voce di un Prelato che cantò messa avanti ieri, e sopra la dignità del suo portamento nel fare questa funzione. [...] Il Prelato rispondeva che aveva imparato col lungo assistere alle cappelle che questo esercizio era stato molto utile, che quella è una scuola necessaria ai loro pari, che non s'era niente imbarazzato, e mille cose spiritosissime. Ho poi saputo che parecchi Cardinali e altri personaggi s'erano rallegrati con lui per il felice esito di quella messa cantata. Fate conto che tutti i propositi de' discorsi romani sono di questo gusto; e io non esagero nulla.

 Sulla Roma di quegli anni abbiamo molti racconti e di tono diverso. Stendhal, per esempio, che a Roma scese ben sei volte, scrive che: "Le persone di spirito, a Roma, possiedono del brio [...]. Non conosco, in Europa, salotti che siano preferibili a quelli romani".
Chi aveva ragione, Leopardi o Stendhal? Possibile, come fa capire Francesco de Sanctis, che fossero gli occhi di Giacomo a imprimere quella colitura funerea  alla Roma papalina? Cero Stendhal dà prova di un senso dello humor che a Giacomo manca del tutto.
Riferisce per esempio l'aneddoto grazioso del turista inglese che entra a cavallo nel Colosseo dove sono al lavoro degli operai che stanno consolidando le mura. La sera ne riferisce ai suoi amici: "Il Colosseo è quanto di meglio abbia visto a Roma. Mi piace questo edificio, quando l'avranno terminato sarà magnifico".
Nel descrivere il popolo di Roma, la "plebe" cara a Gioacchino Belli, Giacomo ne parla bene.
Salendo alla tomba del Tasso e alla chiesa di sant'Onofrio al Gianicolo, Leopardi racconta, nella lettera a Carlo del 20 febbraio 1823, questa scena:

Anche la strada che conduce a questo luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. E' tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti , e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni ituli. Anche le fisionomie e le maniere della gente, che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno come la massima parte di questa popolazione.

In una città dove il poeta vede prevalere "intrigo e impostura" (non è stato l'unico del resto) egli sceglie di raccontare quelli che vede applicati ad una vita raccolta, a "professioni utili", persone la cui esistenza poggia "sul vero e non sul falso". La sua è chiaramente una scelta poiché il gran teatro di Roma offre di tutto.

Nei suoi 2279 sonetti Giuseppe Gioachino Belli, fugacemente richiamato più sopra, non si occupa né di letterati né di borghesia. Descrive solo la plebe di Roma, anzi a quella plebe, alla sua lingua degradata e corrotta, dice di voler erigere un monumento. Nell'introduzione ai Sonetti scrive: "Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modelloma sì per dare un'immagine fedele di cosa già esistente, e, più, "abbandonata senza miglioramento" è l'altra faccia, il relativo minore, della borghesia codina, reazionaria, ugualmente superstiziosa, molto ignorante, non casta né pia, che tanto dispiacque a Giacomo. Il 16 dicembre 1822 scrive a Carlo:

Il cardinal Malvasia b.m. metteva le mani in petto alle Dame nella sua conversazione, ed era un débauché di prima sfera e mandava all'inquisizione i mariti e i figli di quelle che resistevano ec. ec. Cose simili del cardinal Brancadoro, simili di tutti i Cardinali (che sono le più schifose persone della terra), simili di tutti i Prelati, nessuno dei quali fa fortuna se non per mezzo delle donne. Il santo papa Pio VII deve il Cardinalato e il Papato a una civetta di Roma [...] si diverte presentemente a discorrere degli amori e lascivia de' suoi cardinali [...]. Una figlia di non so quale artista, già favorita di Lebzeltern, ottenne per mezzo di costui e gode presentemente di una pensione di ottocento scudi l'anno [...]. La Magatti, quella famosa puttana di Calcagnini, ha 700 scudi di pensione dal governo.      

Qui non si tratta di impressioni ma di fatti. Del resto che le favorite dei cardinali (o di altri potenti) guadagnassero a letto la "pensione" è faccenda consueta nei secoli, il potere conosce questi privilegi né è detto che vengano sempre per nuocere. Giulia Farnese per esempio era stata l'amante quindicenne di papa Alessandro VI che di anni ne aveva 58. Durante uno dei loro incontri intimi raccomanda al pontefice il fratello Alessandro Farnese, venticinquenne. Il papa lo fa cardinale. Alessandro diventerà a sua volta papa, col nome di Paolo III. Gli si devono varie novità: l'approvazione dell'ordine dei gesuiti, la convocazine del Concilio di Trento, l'istituzione della Santa Romana e Universale Inquisizione. Gli si deve anche uno sfrenato nepotismo che, curiosamente, porta ad un collegamento tra questa storia e quella che sarà narrata nel capitolo dedicato a Parma. Tra i suoi favoriti c'era il figlio Pier Luigi Farnese, probabilmente il primogenito, al quale nel 1545 (lo stesso anno in cui si apriva il Concilio) affidò le città di Parma e Piacenza separandole dai territori dello Stato pontificio. Nasceva così quel ducato che sarebbe rimasto ai Farnese per circa due secoli e di cui vedremo tra poco gli sviluppo. Quali furono i rapporti di Giacomo con le donne a Roma? Stenti, come nel resto della sua vita. Anche se giovane e non molto malato in quegli anni, il poeta doveva risultare di compagnia non piacevole, non attraeva il suo aspetto fisico, pare fosse molto sgradevole l'odore che spesso emanava da lui. Sarebbe stato necessario conoscere la sua immensa anima per amarlo. Ma non sono molti quelli disposti alla fatica di superare le apparenze e dotati di sufficiente perspicacia. Per conseguenza i suoi rapporti furono per lo più mercenari e, nemmeno quelli, facili. Il 6 dicembre a Carlo:

Al passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi [...] Io fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. [...] E' così difficile il fermare una donna a Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine che [...] non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.

Avezzano a Recanati, il poeta è spaventato dalla vastità di Roma anche se si tratta di una dimensione tutto sommato modesta se confrontata con quella delle grandi metropoli europee. Tale il timore, la diffidenza, l'infelicità, che quasi trascura i grandi monumenti, passeggia per via dei Condotti, percorre il Babbuino da piazza di Spagna a piazza del Popolo. Uno dei pochi luoghi che davvero lo attraggono è il convento di sant'Onofrio alle pendici del Gianicolo. dov'è il sepolcro del Tasso. Anche Chateaubriand, non molti anni prima, era rimasto così incantato dai luoghi da scrivere nelle sue Memorie d'oltretomba: "Se avrò fortuna di finire i miei giorni qui, ho preso accordi per avere a sant'Onofrio una stanzetta adiacente alla camera dove morì il Tasso".
Quando ho visitato il convento, il giardino, le cappelle, l'affaccio su Roma, ho provato io stesso un'emozione simile per un facino che, ancora oggi, è rimasto quasi completamente intatto. Così fu per Leopardi che durante lo scoraggiante soggiorno romano, provò a sant'Onofrio una delle poche vere emozioni. Al fratello Carlo in una lettera famosa del 20 febbraio 1823, scrive "Venerdì 15 febbraio fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e unico piacere che ho provato in Roma".  E poi: "Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino di una chiesuccia. [...] Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto tra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura".
Fu soggiorno infelice quello romano, alla fine di aprile riprende, sconfitto, la strada di casa. Il 26 confida a Pietro Giordani: "Io non sono più buono a cosa alcuna del mondo".
Una curiosa coincidenza lega Leopardi al grande Giuseppe Gioachino Belli. Il poeta romano, che aveva sposato di malavoglia una ricca vedova di 14 anni più anziana, ebbe una passione durata a lungo per la marchesina Vincenza Roberti (che chiamava familiarmente Cencia); andò per anni a trovarla ogni estate nel  paese dove costei risiedeva: Morrovalle, nelle Marche. Anche la marchesina aveva fatto un matrimonio di convenienza col medico condotto del paese, la si potrebbe vedere come una versione marchigiana di Madame Bovary. Facile dunque immaginare quale ventata d'aria nuova, quale eccitamento di novità dovesse rappresentare l'arrivo del poeta, la cui devozione certo non le dispiaceva, da una città come Roma. Del resto non è un caso che tra i sonetti composti dal Belli a Marrovalle (settembre 1831) ce ne siano di accesamente erotici. Un solo breve esempio:

Io sce vorrebbe franca una scinquina
Che nn' addrizzi ppiù tu cor fa' l'occhietto,
Che ll'arte cor mostrà la passerina.
(A Nina, 7 settembre 1831)

Morrovalle si trova a pochi chilometri da Recanati, la giovane Vincenza e i suoi famigliari erano spesso ospiti di casa Leopardi. Sulla base di una premessa per dir così di tipo logistico s'è posta più volte la domanda se i due poeti ebbero modo di conoscersi. Una risposta certa non c'è anche se è possibile che i due si siano incontrati nell'inverno 1831-32 quando il belli abitava in piazza Poli e Leopardi poco distante, in via dei Condotti. Certo la loro frequentazione rimase superficiale e d'occasione ed è un peccato perché alcune caratteristiche li accomunavano.
Erano entrambi sudditi pontifici, per cominciare. Entrambi di temperamento incline alla malinconia. Entrambi colpiti dal clima culturale angusto, retrogrado e avvilente della Roma papale dal quale cercarono scampo - ognuno a suo modo - con le loro opere. Chissà cosa si sarebbero detti se avessero potuto ragionarne insieme. Li dividerà però l'età. Belli era maggiore sette anni e sopravviverà a Leopardi di un quarto di secolo. Giacomo muore a 39 anni, Belli a 72; Giacomo divorato dal suo male, Belli oppresso da una spettrale ipocondria. scrive: "Sono solo in casa come il tempo che mi trascina". Rispondendo alla lettera di un lontano parente che l'aveva definito "poeta nato" scrive di sentirsi piuttosto "un poeta morto". Curiosamente sono quasi alla lettera le stesse parole che Giacomo riferì a se stesso parecchio tempo prima che la morte lo sottragga finalmente alle sue pene. Questo accadrà il 14 giugno 1837. Qualche giorno dopo Antonio Ranieri scrive ad un amico: "Non è da dolere che abbia finito di penare; ma sì per 40 anni abbia dovuto desiderare di morire: questo è il dolore immedicabile".






martedì 4 settembre 2012

Dassi o dessi? Stassi o stessi?

Dassi o dessi? Stassi o stessi?

Fonte: corriere.it

Giacomo Leopardi


Dessi e stessi, naturalmente. Sono le sole forme corrette del congiuntivo imperfetto di dare e stare. Eppure, non dev’esser stato sempre così chiaro se addirittura Giacomo Leopardi, in un giorno di malinconia, in una lettera si lasciò scappare: “Si sta in mezzo alla moltitudine... come si stasse in solitudine”. Orrore! Già, ma perché un grande della poesia può aver commesso un errore simile? Forse per influenza dialettale? È vero: ai tempi di Leopardi la lingua italiana parlata non era stabile nelle forme come lo è oggi, anzi, la lingua parlata era più spesso il dialetto, e nella lettera forse il nostro grande voleva usare un linguaggio più colloquiale. Ma questa giustificazione non ci basta, o meglio, non basta per un Leopardi. Facciamo qualche altra congettura. I verbi dare e stare sono della prima coniugazione (in are) ma sono irregolari. Le forme dassi e stassi possono essere nate per analogia con le forme corrispondenti dei verbi regolari: amare fa amassi; lodare fa lodassi eccetera. Questa sembra una ragione già più convincente. Resta il fatto che anche Leopardi si è fatto prendere in castagna.


giovedì 23 agosto 2012

La figura di Adelaide Antici, madre di Giacomo Leopardi

La figura di Adelaide Antici, madre di Giacomo Leopardi


   Un ritratto della marchesa 
Adelaide Antici Leopardi


Chi era Adelaide Antici?

«Era una fanciulla di bellezza severa, da gli occhi di zaffiro splendenti e intelligenti, benché velati da una pensosa malinconia; dai corti capelli ricciuti d'un castano chiaro tendente al biondo, da l'aspetto maestoso, che pareva accordarsi perfettamente al carattere del vetusto palazzo di cui diveniva signora; alta e con un portamento da regina, ella nelle graziose acconciature e nelle succinte vesti, di cui la moda era venuta allora da Parigi, nulla perdeva de l'austerità naturale; e il viso, soprattutto gli occhi e la fronte, restavano severamente assorti, come in un mesto pensiero, sotto i diffusi riccioli ornati da un filo di perle, da un nastro di velluto e da un capriccioso spennacchietto. Tale ci appare in una miniatura sopra una tabacchiera di Monaldo; nessun sorriso, nessuna mollezza nelle austere sembianze: non sembra una delle graziose, voluttuose donne del secolo passato, ma un'antica matrona travestita». [1]

La marchesa, Adelaide Antici, moglie di Monaldo Leopardi, e madre di Giacamo Leopardi, è stata una figura materna distante per l'intellettuale di Recanati. Per Giacomo e per gli altri fratelli (Carlo e Paolina), infatti, la marchesa è stata sempre una madre fredda, affettivamente distaccata, e opprimente. Aveva un modo tutto suo di occuparsi dei figli, leggendo la loro corrispondenza e osservando tutto quello che facevano: «lo sguardo di nostra madre ci accompagnava sempre, era l'unica sua carezza», ricorda il figlio Carlo, mentre la figlia Paolina scrisse di sentirsi oppressa da una madre che «gira per tutta la casa, si trova per tutto e a tutte le ore». 
Chi colmava le carenze affettive della madre, nell'abitazione recanatese, era Monaldo, che faceva sia le veci di padre che di madre appunto. Monaldo, dopo gli insuccessi economici (aveva perso molti scudi, per un precedente fidanzamento fallito, e per una errata speculazione sul commercio del grano), perde il ruolo vero e proprio di capofamiglia, lasciando la totale amministrazione dei beni di casa Leopardi, alla moglie, dedicandosi anima e corpo all'istruzione dei figli, soprattutto a quella di Giacomo. 
Improvvisatasi capofamiglia Adelaide Antici, risollevò magistralmente le sorti economiche della famiglia Leopardi, riportandola ai vecchi albori.

La marchesa non usciva mai di casa, la sua fortezza, casa Leopardi, era il mondo, e tutto ciò di cui necessitava una famiglia e un essere umano (secondo lei) si trovava lì dentro. Non usciva mai né voleva che estranei invadessero il suolo domestico, sia fisicamente, sia tramite rapporti epistolari, come già detto precedentemente, leggeva continuamente le corrispondenze che erano dirette ai figli. 
Neanche la sua fede incrollabile verso il Signore la faceva muovere di casa, non andava più a messa, e se provava ad allontarsi dalla sua dimora, aveva degli improvvisi mancamenti.
Discutibile e poco umano il rapporto con il figlio e con la sua malattia*, vedeva i mali di Giacomo, come quasi un segno divino, era contenta che i figli morissero, e doveva essere lieta che il figlio fosse "deforme" e rinunciasse completamente ai piaceri e alle gioie della giovinezza, perché le morti e le malattie dei figli erano un dono che lei faceva a Dio e che Dio ricambiava. 

Su questo pensiero distorto, infatti, lo stesso Giacomo scrisse di lei impietosamente: «Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non procurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù; se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva nell'opinione sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perché n'ebbe molti) e non lasciava passare, anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione de' figli, al produrli nel mondo, al collocarli [...] questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo ed era stata così ridotta dalla sola religione».  

Al contrario, Monaldo, si affliggeva e piangeva continuamente per le malattie dei figli e di Giacomo.

Adelaide Antici morirà nel 1857, precisamente venti anni dopo Giacomo e dieci dopo Monaldo. La figlia Paolina che subì molto questa figura materna opprimente, forse più degli altri, vivrà la morte della madre come una vera e propria liberazione.




* Giacomo Leopardi era affetto da tubercolosi ossea (o morbo di Pott), possedeva una vista precaria, aveva due gobbe, una nella parte anteriore e una nella parte posteriore del torace. La parte superiore del corpo era meno sviluppata rispetto a quella inferiore, era alto 1,41 cm.

[1] E. Boghen-Conigliani, La donna nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi, Firenze, Barbera, 1898, pp. 3-4.

domenica 5 agosto 2012

Umberto Galimberti: Uomini e macchine, la vittoria è della tecnica

 

Umberto Galimberti: Uomini e macchine, 

la vittoria è della tecnica



Tratto da “la Repubblica”, 25 marzo 2008


                                                                     Umberto Galimberi


Era il 1968, gli anni della contestazione giovanile, e sulla facciata del liceo dove ero stato nominato commissario per gli esami di maturità c’era scritto: “Servire il popolo”. L’indomani, per tutta risposta, sotto quella scritta ne era comparsa un’altra: “Il popolo si serve da solo”. Non era finita lì, perché dopo qualche giorno comparve la scritta definitiva: “Self service”. Mai avrei pensato che questo sarebbe diventato il programma per gli anni a venire dove, neanche a cercarlo, trovi più nessuno che faccia qualcosa per te.
Se vai al supermercato gironzoli da solo a cercare i prodotti che ti servono senza che nessuno più ti rivolga la parola, se non la cassiera quando, un po’ seccata, ti dice il prezzo che non sei riuscito a leggere nella finestrella collegata al suo computer. Se vai alla stazione, per evitare le code, hanno disposto per te delle macchinette che, opportunamente digitate, ti rilasciano il biglietto che ti serve. Mi dicono che in alcuni aeroporti americani accade la stessa coda per i check-in.
Non parliamo poi dei servizi bancari, dove non hai più bisogno di incontrare un impiegato perché, o per via telematica o in quei loculi simili a confessionali, puoi effettuare versamenti o prelievi senza scambiare una parola con nessuno. Anche se vuoi bere un caffè, nero o macchiato, lungo o ristretto, basta che digiti le tue preferenze e la macchina fa tutto da sé.
Persino la benzina te la puoi fare da te, se vuoi risparmiare quello zero virgola che i distributori ti scontano se ti arrangi da solo.
L’inverno scorso ero a Londra e chiesi al portiere dell’albergo se mi poteva chiamare un taxi. Il portiere per tutta risposta mi piazzò davanti un telefono e, senza troppa cortesia, mi disse: “Help yourself”, “provvedi da te”.
Un po’ smarrito e pervaso da un senso di spaesamento mi sono chiesto: ma davvero è proprio finita la comunicazione tra gli uomini? Davvero non abbiamo più bisogno di nessuno? E nessuno è più disposto a fare qualcosa per noi? Sembra proprio di sì. Anche se la pubblicità ti descrive un mondo dove tutti sembrano pronti a soccorrerti e a soddisfare ogni tua più piccola esigenza: dal lavandino che vuoi iperlucido, agli yogurt che non ti fanno ingrassare, dai prodotti che risolvono i tuoi problemi di stitichezza, alle tariffe telefoniche sempre più convenienti, alle creme più diverse che ti consentono di accarezzarti da solo, dal momento che più nessuno ti accarezza.
Basta pagare. E poi tutto il mondo è ai tuoi piedi, per i tuoi bisogni necessari o superflui, per le tue esigenze reali o immaginarie.
Ma nessun gesto gratuito, nessuna gentilezza senza compenso, nessuna faccia umana che ti dica qualcosa anche di approssimativo. Solo o sempre più un video che ti dice cose precise se appena sai digitare e, in perfetta solitudine, puoi vendere o comprare, comunicare senza un interlocutore con nome e cognome, perfino fare sesso nella formula “help yourself”.
La tecnica ci fa risparmiare cose, tempi, attese, inserendoci in quei circuiti di perfetta efficienza e funzionalità, dove la ragione strumentale, quella delle macchine, regola il nostro modo di vivere senza doverci affidare al linguaggio umano, pieno di equivoci, di fraintendimenti, ma anche di quella sovrabbondanza discorsiva che certo non è funzionale al rapido raggiungimento dello scopo, ma che fa così bene all’anima, perché consente al dolore di diluirsi nella comunicazione, alla gioia di espandersi nella condivisione, alla noia di attenuarsi nell’incontro imprevisto, alla gratuità della conversazione di acquisire altri punti di vista capaci di schiodare i nostri problemi da quel vicolo cieco in cui la nostra solitudine li aveva cacciati.
Il mondo della vita sta esaurendosi e rattrappendosi nel mondo della tecnica. E la solitudine si espande diventando una solitudine di massa, dove persino i “buongiorno” e i “buonasera” che scambiamo con chi sale l’ascensore con noi non lasciano trasparire nessun vero interesse. Semplici password per sottrarsi all’imbarazzo del silenzio in questo anonimato di massa, dove nessuna parola viene sprecata e tanto meno si fa veicolo di un incontro vero.
E poi chiamano tutto questo “progresso”, mentre in realtà è impoverimento del linguaggio, il suo rattrappimento nella pura e semplice funzionalità, dove le macchine prendono il posto degli uomini e fanno per noi tutto quello che gli uomini non sanno più fare o non hanno più voglia di fare.
“Provvedi da te” è ormai il motto generalizzato. In fondo c’è sempre una macchina che ti può soccorrere, mentre gli uomini diventano ogni giorno di più inconvenienti da evitare, in quel deserto della comunicazione che non cessa di espandersi a detrimento del mondo della vita, che forse non conosce le risposte perfettamente funzionali della tecnica, ma certamente non ignora le parole che sanno toccare l’anima e farla sentire in ogni istante meno sola.

martedì 31 luglio 2012

Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo

 Umberto Galimberti: Non siamo padroni di dire ti amo
 Tratto da "la Repubblica", 30 agosto 2003

 Umberto Galimberti

«Se io ti do il mio amore, che cosa ti sto dando di preciso? Chi è l' io che sta facendo questa offerta? E chi, per inciso, sei tu?» si domanda lo psicanalista americano Stephen Mitchell nel suo ultimo libro: L' amore può durare?. La domanda non è retorica. Segna piuttosto un ribaltamento radicale circa il modo di considerare l' amore, quasi sempre pensato come qualcosa in possesso dell' io, qualcosa di cui l' io può disporre. Per questo nessuno crede fino in fondo all' altro quando dice: «Io ti amo». Amore non è una faccenda dell' io. L' ultimo a ricordarcelo, in ordine di tempo, è stato Freud quando ha detto che «l' io non è padrone in casa propria», perché inconsce sono le forze che determinano quelle che l' io considera sue scelte. Prima di Freud queste cose le aveva dette Nietzsche, da cui Freud, su suggerimento del suo amico Georg Groddeck, preleva il termine Es. Non "io penso", ma "esso pensa". Che se l' io non è padrone dei suoi pensieri come può essere padrone dei suoi amori? Ma prima di Freud e prima di Nietzsche queste cose le aveva pensate Schopenhauer che Nietzsche considera suo "educatore" e Freud suo "precursore". Per Schopenhauer in ciascuno di noi confliggono due vite: quella della specie e quella dell' individuo, che proprio nelle vicende d' amore trovano la loro contaminazione. «Il soggetto del gran sogno della vita - scrive Schopenhauer - è in un certo senso uno soltanto: la volontà di vivere». Questa volontà, che è irrazionale perché non tende ad altro scopo se non alla propria perpetuazione, inganna i singoli individui con le lusinghe d' amore. Questi credono di essere i soggetti della loro vicenda erotica, in realtà sono solo strumenti che la specie utilizza per la propria conservazione. Non siamo noi i soggetti della nostra esperienza erotica, ma forze oscure e impersonali con cui la specie raggiunge i suoi scopi. Ma prima di Freud, prima di Nietzsche, prima di Schopenhauer, queste cose le aveva dette Platone che, nel Simposio, ci dà forse la lettura più profonda che in Occidente sia mai stata fatta sulle cose d' amore. Scrive Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l' uno dall' altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. è allora evidente che l' anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Guardando «le cose d' amore» o, come dice il testo greco i ta aphrodisia, Platone ci chiede che cosa con esse l' anima riesce o non riesce a dire. E dove il dire si interrompe e la regola non basta a portare la parola a espressione si apre lo sfondo buio del presagio e dell' enigma. Amore appartiene all' enigma e l' enigma alla follia. Nell' edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l' abisso della follia, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, perciò nel Fedro può dire: «I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino». E ancora: «La follia dal Dio proveniente è assai più bella della saggezza d' origine umana». Ma chi sono gli dèi? Sono gli abitanti di quel mondo che sta prima dell' umana ragione e che offre alla ragione i contenuti da ordinare in una produzione compiuta di senso. Di questo mondo ha conoscenza Socrate, che non considera la ragione da lui inaugurata nella sola prospettiva dell' ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l' ha evocata, da quale abisso l' ha chiamata fuori. Un giorno una donna ha insegnato a lui, che non sa niente, quell' unica cosa che sa: la scienza delle cose d' amore. «Vi assicuro che di nulla ho sapere, se non delle cose d' amore. Amore è un demone possente che sta tra gli uomini e gli dèi». Dunque non una vicenda tra uomini, ma tra l' umano e quello sfondo pre-umano abitato indifferentemente dagli animali e dagli dèi. Proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l' io razionale «patisce» e perciò legge come «altro da sé». Gli dèi infatti sono dentro di noi e la loro follia ci abita. Per questo l' amore di cui parla Socrate non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione (katokoché) di un dio. L' entusiasmo che genera, lungi dall' essere un sentimento di esuberanza o di particolare eccitazione, dice che l' uomo, in quella circostanza è abitato da un dio, ha dentro di sé un dio (en-theos), per cui non è l' io razionale a proferir parola, ma il dio che lo possiede. Quanto basta per farci capire che, in presenza di amore, l' io razionale subisce una dislocazione (atopia, dice Socrate in riferimento alla sua malattia) che dis-loca la nostra riflessione, e ci obbliga a pensare a partire da amore, e non dall' io che inaugura una storia d' amore. Amore, infatti, non è qualcosa di cui l' io dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell' io, qualcosa che lo incrina, che lo apre alla crisi, che lo toglie dal centro della sua egoità, dall' ordine delle sue connessioni per nessi di tutt' altro genere e forma e qualità. Per questo Socrate, a proposito delle cose d' amore, parla di possessione, di katokoché. Figlio di povertà (penia), «Amore - riferisce Socrate - non è affatto delicato e bello, come per lo più si crede; bensì duro, ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre, e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l' aperto cielo, nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiaramente la natura di sua madre, dimorando sempre insieme con povertà». Ma Amore è anche figlio di Poros, la via, il passaggio, il guado. E perciò concede alla follia che ci abita il suo transito. Questa, irrompendo nell' ordine dei significati che l' io razionale ha costruito per espellerla, produce quel controsenso che denuncia la maschera eretta sull' elusione della follia. E qui la direzione del discorso si lascia intuire: Amore non è godimento di corpi, Amore è molto di più. Occupando «il posto intermedio tra l' uno e l' altro estremo», Amore si fa interprete (ermeneuei) tra la ragione che l' uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita. Non quindi un rapporto tra uomini come si è soliti credere, ma tra la parte razionale dell' uomo e la sua parte folle o divina. Ma che ne è dell' io e dell' altra parte di sé quando Amore li accoglie? Che ne è dell' uomo e del dio quando Amore li interpreta? Se Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l' altro, quanto una relazione con l' altra parte di noi stessi, quindi un cedimento dell' io per liberare in parte la follia che lo abita, Amore ha a che fare con quei limiti ontologici che sono per l' esistenza la nascita e la morte. Morte dell' io per dissoluzione dei suoi confini, sua rinascita in nuove configurazioni. Questa oscillazione, che ogni atto d' amore porta con sé, ha bisogno della presenza dell' altro come memoria della realtà che si lascia e come possibilità di ritorno dal mondo estraneo a cui ci si è concessi nella dissolvenza dell' io. L' avvinghiarsi al corpo dell' altro, prima di un contatto, è dunque una presa. Per il solo fatto di esserci accanto, l' altro ci concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al cedimento del nostro io, con la sua presenza, come la levatrice durante il parto, l' altro aiuta la nostra nascita. C' è infatti in Amore un' intenzione generativa, dice Socrate: «Porta fuori quel fondo nascosto di cui ciascuno è gravido ponendo fine alle doglie». Ma questo avviene dopo l' esperienza della morte (di cui l' orgasmo è la simulazione) che ci strappa dalla nostra ostinazione a veder durare quell' io che noi siamo. Se ci portiamo all' origine possiamo ricostruire le parole e le scene, rivedere il contrasto tra uomini e dèi, le ferite inferte e le cure concesse. «L' antica nostra natura non era la medesima di oggi» riferisce Platone. In principio gli uomini erano l' uno e l' altro (amphoteroi), la loro forma era circolare, il loro aspetto intero e rotondo, «non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra». Un giorno «Zeus, volendo castigare l' uomo senza distruggerlo lo tagliò in due». Da allora «ciascuno di noi è il simbolo di un uomo», la metà che cerca l' altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare l' «antica ferita», Zeus, dopo averla inflitta, inviò Amore «fra gli dèi l' amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all' antica condizione. Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l' umana natura». Da allora gli uomini si congiungono tra loro e così generano, non più per unione con la terra, ma per unione reciproca. Mediatore tra gli uomini e gli dèi, Amore interviene al limite dell' umano, laddove il fondo non-storico, da cui la nostra storia ha preso avvio, ancora ci possiede come follia rimossa. Chi tocca questa follia ci affascina e ci induce a quel progressivo cedimento di noi stessi che rende possibile la liberazione di quella follia di cui si contorna Amore, dove il senso gioca col non-senso e dove non si dà nuova parola se non liberando a ogni istante l' antica follia. Così Platone erge Amore a simbolo della condizione dell' uomo «a cui però non è concesso distogliere l' occhio dal proprio taglio». E questa è la ragione per cui Amore non è solo vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.